Quali sfide attendono la società di domani? Quali sono i rischi e quali le possibilità offerte dallo sviluppo tecnologico? Per la rubrica “Futuro da sfogliare” un estratto del libro Il lavoro da offrire, la proposta da accettare (FrancoAngeli, 2025) di Luca Furfaro, Valentina Marini e Filippo Poletti.
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Da una parte le organizzazioni vivono una più accesa “War for Talent”, competendo tra diverse offerte lavorative per attrarre e trattenere le persone, che tendono a cambiare lavoro con una maggiore frequenza rispetto al passato; dall’al- tra, in un mercato del lavoro più dinamico, per ogni professionista sta di- ventando sempre più importante occuparsi del proprio personal brand, ossia della propria percezione e reputazione. Stiamo affrontando due argomenti, a mio avviso, fortemente correlati per più ragioni tra cui: riguardano un’immagine (personal branding l’immagine individuale, employer branding l’immagine dell’azienda come luogo di lavoro); hanno come obiettivo la valorizzazione di una proposizione (personal branding valorizza esperienze, competenze, valori e unicità di un professionista, mentre l’employer branding valorizza l’organizzazione per le sue offerte ed esperienze lavorative proposte ai lavoratori che ne fanno parte); portano buoni risultati nel lungo termine se basati prima di tutto sull’autenticità.
A questi punti in comune, si aggiunge un altro elemento: prima di essere una strategia da gestire, entrambi rappresentano qualcosa che si mette in atto a prescindere (qui sta la differenza tra personal brand – risultato – e personal branding – processo; come tra employer brand – reputazione dell’azienda come luogo di lavoro – ed employer branding – processo e azioni per attrarre e trattenere). E per spiegare meglio questo concetto, prendo in prestito la celebre frase di Jeff Bezos: “Il tuo personal branding è quello che dicono di te quando esci dalla stanza”. Questo spunto può essere applicato anche all’employer branding, dove si ha inevitabilmente un passaparola relativo alle esperienze lavorative delle persone. Va- le la pena sottolineare che, seppure ogni professionista abbia un “brand”, non per tutti è necessario investire sul proprio personal branding con una strategia.
Cosa che, invece, a mio avviso non possiamo sostenere nel caso dell’employer branding, poiché una qualsiasi organizzazione ha necessità di attrarre e trattenere personale. Arrivando al punto centrale di questo paragrafo e facendo seguito alle riflessioni di Luca Furfaro, risulta chiaro che sia il personal branding che l’employer branding richiedono una comunicazione trasparente e coerente, in linea con la necessaria autenticità: l’etica è fondamentale per avere una buona reputazione e per creare e mantenere la fiducia e, di conseguenza, impatti positivi sia per la persona che per l’azienda. In questo caso, allora, è più semplice parlare contemporaneamente ad aziende e professionisti, siano essi collaboratori in un’organizzazione o free-lance: alla base, per essere efficaci e generare un vero impatto, è necessario mettere al centro autenticità e responsabilità.

La comunicazione deve riflettere i valori, le competenze e le esperienze reali, per evitare incoerenze che possano compromettere la credibilità. Questo si traduce in comportamenti come l’evitamento di promesse non facilmente mantenibili; la trasparenza come priorità; l’uso della comunicazione in modo costruttivo e autentico; la promozione di valori concreti e agiti, senza seguire solo le mode; l’allineamento dei messaggi e dei comportamenti. Stiamo parlando, prima di tut- to, di scelte morali, ma anche di una strategia efficace per costruire fiducia, stima e relazioni durature. Parlando di comunicazione e della necessaria trasparenza, mi vengono in mente le riflessioni di Riccardo Scandellari, condivise nel suo libro La scimmia nel cassetto.
Liberati dal giudizio degli altri, apriti alla narrazione e scopri chi ti apprezza. Qui si affronta quella naturale paura dell’esposizione che molti di noi provano, a discapito di competenze ed esperienze che potreb- bero essere valorizzate. Da questo libro e dalla grande esperienza dell’auto- re, ho avuto una conferma che da anni tenevo per me: “non puoi essere ama- to e apprezzato da tutti, e se cerchi questo non otterrai mai un vero pubblico”. Collegata a questa riflessione, aggiungo un’altra “paura” che spesso impatta, a mio avviso, soprattutto tra le persone nel loro personal branding: quanto potenziale e valore vengono sprecati per la “paura” della banalità? Questa riflessione la devo a una brillante studentessa, la quale, giustamente, mi ha posto una domanda che spesso mi fanno quando parliamo di scrittura, di personal branding e di comunicazione online. Una domanda come tante, che ruota principalmente intorno a questa criticità: “Ma non rischio di essere banale?”.

Questo punto di vista mi ha accesa, perché è davvero un tema frequente, e ogni volta mi chiedo cosa significhi essere banali e per chi. Co- me facciamo a determinarlo, e perché dovremmo inseguire un obiettivo quasi impossibile, come condividere qualcosa che nessuno abbia mai detto o pensato? Così, ho focalizzato il “macigno della banalità” sul potenzia- le umano, quel peso che ci impedisce di liberare ciò che possiamo essere e dare agli altri. Perché, a mio avviso, se un nostro contenuto aiuta anche solo una persona, abbiamo generato qualcosa, un impatto. Quindi, perché considerarlo banale?
Personalmente, questo è ciò che mi guida: non essere “straordinaria”, ma utile per qualcuno. Credo sia un approccio generoso sia verso di sé, sia verso gli altri. Sostituirei, quindi, la grande domanda “Ma non rischio di essere banale?” con una più costruttiva: “Come posso essere utile?”. Que- sto spostamento del punto di vista può diminuire le criticità e aumentare la possibilità di trovare contenuti di qualità. Parlando di etica e di employer branding è utile considerare una rifles- sione di Giuseppe Caliccia, esperto e consulente di risorse umane e strategie di employer branding e marketing, che utilizza spesso una frase sintetica e di grande impatto per esprimere una criticità a volte riscontrata nelle aziende: “Non è tutto employer branding quel che luccica!”.
È un richiamo alla necessità di andare oltre il marketing e di costruire un rapporto di fiducia e trasparenza con le persone. Una frase che ben sintetizza un punto chiave: l’employer branding au- tentico non è solo una questione di immagine, ma una promessa mantenu- ta, basata su politiche aziendali reali che mettono al centro le persone. Si tratta, quindi, di un vero e concreto impegno verso le persone e qualcosa di molto lontano dalle strategie di facciata.
Non ci si può limitare a creare un’immagine allettante per attrarre talenti; non si possono enfatizzare benefit o valori aziendali poco vissuti internamente; non si deve raccontare un ambiente inclusivo, flessibile e meritocratico se la realtà è diversa; non si “cavalcano” trend e mode solo per stare al passo. Aprendo il discorso sull’etica alla più estesa comunicazione d’im- presa, condivido alcune considerazioni riportate da Annalisa Galardi, autrice del libro Comunicazione d’impresa, dove sono stata coinvolta per un contributo, e che ci illustra come oggi “le persone si aspettano che siano le imprese a dire la loro sulle questioni importanti che atta- nagliano la società e che quindi non siano tanto concentrate sul comunicare il proprio prodotto o servizio, ma imprese in costante ascolto e dialogo con l’intera società”.
Nello stesso afferma come “sei persone su dieci dichiarino di scegliere di lavorare per un’impresa in base ai suoi valori dichiarati e agiti e di essere pronte a lasciare se l’employer decide di non prendere alcune posizioni su un problema d’interesse generale che dovrebbe invece affrontare. E da qui la consapevolezza di come serva una comunicazione sempre più human to human, attenta al contesto più ampio all’interno del quale un’impresa deve sempre partecipare come un buon cittadino”.