Dentro le Parole | Serve un alfabeto del disturbo alimentare?

Dentro le Parole | Serve un alfabeto del disturbo alimentare?

Serve un alfabeto del disturbo alimentare?

Forse no.

Se per “servire” intendiamo un’utilità pratica, di taglio clinico, scientificamente fondata e ben documentata, allora no: un alfabeto, qui, non serve. 

Anche perché esiste sul tema un’ampia letteratura, il DSM-5-TR, anzitutto, il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali pubblicato dell’American Psychiatric Association; o, per l’Italia,  MA.NU.AL., la MAppatura territoriale della NUtrizione e dell’ALimentazione dei centri specializzati, curata da Ministero della Salute e Istituto Superiore di Sanità. 

Ma se intendiamo l’alfabeto per ciò che la parola può suggerire, quindi l’inizio, i primi passi di un ragionamento, magari per cogliere qualche spunto da territori vicini, a qualcosa può servire. 

A partire dall’etimologia della parola alimentare, che può essere un verbo, quindi indicare un agire, ma qui è un aggettivo, quindi ha il ruolo di specificare le qualità del disturbo. 

Viene dal latino àlere, nutrire, far crescere (alta è infatti la persona che è stata nutrita e ormai è grande). Ma contiene anche la suggestione della mente, a indicare che si manifesta sul corpo, ma ha origini più profonde. 

E se a proposito del rapporto tra corpo e mente, sempre i latini si gingillavano nel motto Mens sana in corpore sano, oggi usato da schiere di centri sportivi per indicare i benèfici effetti sull’anima dell’esercizio fisico, qui c’importa indagare anche il senso opposto dell’equazione: quali sono gli effetti sul corpo di un disturbo della mente?

Ci bastasse l’ABC?

Ah, ne avremmo altro che: Anoressia, Bulimìa, Cibo. C’è già il grosso della faccenda: i due disturbi principali, e l’oggetto della contesa. Perché di contesa si tratta.

Anoressia. Dal greco an-orexia, con il privativo an- e orexis, appetito. Indica in modo generico la mancanza di appetito, che può giungere fino al rifiuto del cibo, e che può essere conseguente a malattie varie, in forme passeggere (es. febbri o infezioni acute) o croniche (es. gastrite). Quando poi le si aggiunge l’aggettivo nervosa, ecco subito lo status didisturbo mentale, e quindi il contesto psichiatrico, la compagnia di altri disturbi somatici o psichici e l’affannosa ricerca delle cause scatenanti, senza farsi mancare né le sfumature consce né quelle inconsce (gelosia, fobie, situazioni di conflitto famigliare o sociale, rifiuto delle proprie caratterizzazioni di genere ecc.).

Bulimia. Dal greco bus, bue, e limòs, fame. Fame da bue, voracità insaziabile, pure questa patologica quando seguita dall’aggettivo nervosa. È il consumo compulsivo, magari furtivo, di grandi quantità di cibo, senza necessità né piacere; spesso con condotte compensatorie come vomito autoindotto, lassativi, diuretici o estenuanti sessioni di attività fisica. 

Rappresenta il contraltare dell’anoressia, anche se non proprio in tutto: se una persona anoressica è sempre sotto peso, una bulimica può essere di peso normale, sottopeso o sovrappeso. 

Ha sinonimi che spaziano nel repertorio animale, come licoressìa, da licos, lupo, fame da lupo.

Quando non comprende comportamenti compensatori cambia nome, ed ecco l’immancabile anglicismo: Binge Eating. Termine versatile, binge: copre un’ampia varietà di eccessi: dal binge drinking, le sbornie da weekend vissute come evasioni dai problemi, al binge sex, le maratone di sesso con uso di sostanze, al binge watching, le notti insonni davanti a serie tv.

Cibo

Parola piccola e densissima. L’origine recente è il latino cibus. Quella più remota è nella radice kap-, presente nel greco kapto e nel latino capio, prendere, assumere, che suggerisce l’idea di assumere nutrimento per vivere. Ma prendere da dove? da chi? Da qualcuno che ce lo dà (vedi qui Nutrice).

Parlare di cibo non è mai solo parlare di cibo. È parlare di sé in relazione con qualcun altro. E già emerge la prima tensione: ben oltre la sostanza da ingerire, il cibo è un atto relazionale.

Nel linguaggio dei disturbi alimentari il significato del cibo è quasi sempre simbolico: nemico, consolazione, punizione, controllo o assenza. La stessa parola assume toni tenebrosi: si carica di ansia in frasi come ho un cattivo rapporto col cibo, è cibo-spazzatura, il cibo è il mio rifugio / il mio nemico; in verbi come sgarrare, concedersi, disintossicarsi. O non viene proprio pronunciata, sostituita da codici, numeri, grammi, calorie, in anatemi contro il carboidrato assassino e con i toni pseudoscientifici delle crociate da social media (zucchero peggio della cocaina, la frutta dopo cena fermenta nello stomaco, se mangi dopo le 18 ingrassi anche respirando).

Volessimo proseguire?

Dis-turbo

Ok, alla D dovrebbe starci depressione. Perché è evidente: tutto il mondo dei disturbi alimentari è connesso a varie forme depressive. Ma la parola è troppo, di tutto. 

Andiamo quindi su disturbi.

Il prefisso dis- ha in genere due funzioni dalla differenza sottile: separazione/allontanamento (disabituare, disaccordo, disarmo, disattento, disonesto) e negazione/sottrazione/contrario (disgiungere, distogliere, disobbedire, disabitato, diserbante). 

Nella parola dis-turbo sembra svolgerne un’altra, di tipo intensivo: aumentare l’intensità, l’ampiezza, l’espressività (ce ne fosse bisogno) del turbare, che è appunto scompigliare, disordinare, molestare. Ma recupera anche quella di allontanamento, in quanto dis-toglie le persone dalle loro occupazioni, sconvolgendo il corpo e l’anima. 

Lo si nota soprattutto nelle varianti dell’alimentazione dis-ordinata: diversamente dai disturbi alimentari, che hanno una forte continuità e persistenza, l’alimentazione disordinata indica azioni sporadiche come saltare i pasti, abbuffarsi occasionalmente o seguire diete estreme. 

Energia 

Parola-paradosso, segnata da un’ambivalenza semantica e simbolica: più nutre o più consuma?

Dal greco en-, dentro, ed érgon, lavoro, azione. Energia è ciò che muove, che mette in atto.

Nel linguaggio medico, parla di combustibile corporeo. In quello psicologico, di spinta esistenziale. Nei disturbi alimentari, i due registri entrano in conflitto. Si mangia poco per non assumere energia, oppure troppo o male per dimostrare di saper governare il processo; ma poi si cerca energia mentale, di controllo, per fingere di star bene. Si rifiuta energia, o ci si abbuffa di energia, e si finisce senza energia.

Fame

Parola ricchissima di significati simbolici, sfumature e di modi di dire pittoreschi, che spaziano dall’ironico al drammatico, dal popolare al letterario, come avere una fame da camionista (il buon appetito è sempre macho), o una fame da mangiarsi le gambe del tavolo, e che esprimono ben più della sensazione fisica. 

Sarà un azzardo – nella scia di pasta-pastiglia, mano-maniglia – pensare un link famefamiglia?

Non sembra esistere una parentela etimologica diretta, ma scavando un po’ può emergere un legame simbolico. Del resto, anche per i latinifamilia era l’insieme di persone che vivevano insieme, che conversavano e si nutrivano, o facevano la fame insieme, dividendo il pane in compagnia (cum panis). Cibo e affetto creano un intreccio potente, un atto relazionale, non solo biologico. Può essere una fame d’amore.

Grasso

È più di un aggettivo: è un giudizio. Da descrizione diventa insulto, minaccia, incubo. Dice il contrario non di magro, ma di accettabile. Non chi sei, ma quanto pesi (che somiglia a quanto vali).
Tutto questo, anche nelle varianti “bulle”: ciccione, pancione, trippone. O in quelle eufemistiche: rotondetto, paffuto, florido. O curvy, se riferita a donne con linee arrotondate. 

Da quando la diet culture ci ha convinto che un corpo può essere cambiato con impegno e sacrificio, grasso è una colpa, un fallimento. Ma c’è chi consiglia di ribellarsi a un mondo grassofobico, di far pace con questa parola e smontare la distorsione “grasso=brutto, magro=bello”. 

Stessimo all’etimo di “magro”, del resto, c’è dentro il macer latino, con l’eco del macerare, del maciullare, e le immagini anguste della magra consolazione, delle vacche magre, della magra figura. Mentre le grasse risate rinfrancano lo spirito, e le donne di Botero esprimono la voluttà, la plasticità, la sensualità dei volumi. 

Hungry hearts

Al singolare, Hungry Heart, è una canzone di Bruce Springsteen. Al plurale è un film che racconta l’amore deformato dall’ossessione per il cibo. 

Una madre (Alba Rohrwacher) iper-vegana, iper-pura, fonde il concetto di nutrire con quello di purificare, fino a negare al figlio l’energia che serve per crescere. 

Il suo linguaggio, fatto di manie salutiste, costruisce un universo in cui il cibo, da bisogno diventa pericolo/colpa. «Volevo mantenerlo puro»: l’amore come filtro contro la vita. «Il mondo è pieno di veleno: qui dentro siamo al sicuro»: l’ideologia del nido domestico come fortezza contro la contaminazione. 

Una scintilla per rotolarsi dentro un archetipo: il rapporto con la madre, intesa anche come simbolo, modello di comportamento e di linguaggio.

Immagine

Una delle parole più dense, stratificate, difficili da esplorare, perché fa emergere la tensione tra come ci vediamo, come vogliamo apparire, e come ne parliamo.

Nel suo etimo già si profilano tutte le ambiguità di un dibattito plurisecolare: il latino imago è da un lato imitazione (il greco mimeomai, da cui mimare e mimetizzare), dall’altro forma visibile. Una riproduzione della realtà che porta con sé l’idea di copia o illusione. E che qui non è solo visiva, ma è sociale. Non è solo ciò che si vede allo specchio, ma ciò che si racconta di quel vedere: i concetti digrasso, magro, orribile, non descrivono solo dati oggettivi, ma giudizi, confronti, sguardi pesanti.

Nell’era digitale, poi, l’immagine ha una nuova grammatica: sovraesposta, misurabile in like, condivisioni, commenti. È ciò che viene pensato, detto, confrontato, postato. 

Linguaggio

Terreno di lotta tra il visibile e l’invisibile del disagio, può essere sia una gabbia sia la sua chiave. 

Le persone che hanno disturbi alimentari faticano a descrivere a parole emozioni come rabbia, tristezza, vergogna o paura: l’alternativa per esprimere il dolore dell’anima è il controllo del cibo, del peso e delle forme. Poi ci sono i modi in cui la società parla di corpo, cibo, peso, bellezza, idealizzando la magrezza: modi che possono avere un impatto diretto su menti vulnerabili. 

Ma il linguaggio può diventare anche uno strumento di consapevolezza e di cura, aiutare a gestire la propria identità, riformulare pensieri, proporre un modo sano di alimentarsi e comunicare. 

Mente 

La mente, certo. Però mente è anche la terza persona del verbo mentire.

Chi lotta con i disturbi alimentari spesso mente. E non è solo dire bugie: è una costruzione linguistica e psicologica in cui la menzogna è un’armatura, una forma di autocontrollo e di difesa.

La menzogna è una lingua parallela, spesso parlata meglio della verità: Ho già mangiato, Va tutto bene, È solo un periodo. Si mente per non essere scoperti, ma anche per non essere toccati. Per mantenere il controllo sul proprio rituale, per difendere il proprio spazio, seppur distruttivo.

A chi giova trattare queste menzogne con le consuete categorie morali del giusto, sincero, leale?

Nutrice

Una parola senza il maschile. Diktat biologico: il nutrimento nasce dal seno, i maschi si rassegnino. 

Nella storia definisce persino la donna che allatta un bambino altrui: dalle famose bàlie della letteratura – es. Euriclea per Ulisse – alle madri di ogni tempo che offrivano la loro prosperità alle classi più agiate.

Questa forza naturale scatena un pensiero difficile: c’è un elemento di genere in questo discorso? O, ancora più dritto: c’entra il rapporto con la madre? 

Forse sì. La madre è il primo specchio del corpo: è sua la prima voce che nomina il corpo (che bella panciotta, sei cresciuta, sei bella ma sta’ attenta); è lei che insegna il linguaggio del nutrimento, con il latte, ma anche con sguardi, carezze, silenzi; è spesso su di lei che il corpo diventa un’eredità (sei tutta tua madre); è spesso il bersaglio dei primi rifiuti, per alcune figlie che dicono di no al cibo non riuscendo a dirlo alla madre.

E se in alcuni disturbi alimentari, in particolare di ragazze e giovani donne, la relazione madre-figlia può avere un ruolo significativo, per fattori genetici, ereditarietà, modellamento di abitudini, uno sguardo non giudicante potrebbe aiutare. 

OSFED

Acronimo per Other Specified Feeding or Eating Disorders, categoria che comprende quei disturbi come l’anoressia nervosa atipica (senza perdita di peso), la bulimia nervosa a bassa frequenza e/o durata ridotta, o la sindrome da alimentazione notturna. Forme che generano comunque disagio, e che pesano sulla società: in uno studio sulle donne citato dal Corriere della sera (22/01/2005), risultavano 21.438 pazienti con anoressia, 40.197 con bulimia, 26.798 con disturbo da alimentazione incontrollata, ma ben 171.506 con OSFED.

Esiste anche un’altra serie di comportamenti che, non ancora riconosciuti come diagnosi autonome, entrano in questa categoria: disturbi emergenti spesso in forma ossessiva come l’ortoressia (solo cibi “sani”), la vigoressia (sviluppo muscolare), l’iporessia (riduzione del desiderio di cibo) o il chewing-and-spitting (il mastica e sputa, avrebbe detto De Andrè).

Picacismo

Dal latino pica, gazza, l’uccello che ruba e inghiotte ogni cosa capiti a portata di becco, attratto da forme e colori. È un’alterazione del gusto che indirizza l’appetito verso sostanze non commestibili (terra, carta, gesso, metallo, capelli, escrementi ecc). Altro che bizzarria, è un disturbo pericoloso.

Anche qui, la reazione impulsiva – proibire, o sgridare (ti rendi conto? disgustoso! non ti vergogni? smettila, ti fai del male!) – tende a peggiorare. È un segnale che chiede rispetto, e un aiuto esperto.

Questioning

È la pratica di fare/farsi buone domande, prima di cercare le risposte.

Nei disturbi alimentari, il linguaggio interiore è spesso fatto d’imperativi, affermazioni assolute e bloccanti (devo dimagrire, se mangio ingrasso, devo abbuffarmi in fretta). Anche quando in forma di domanda, sono spesso sentenze (perché sono così debole?, quante calorie ho già mangiato?, perché non riesco a controllarmi?). 

Ma le domande possono anche ribaltare la prospettiva, e aprire a direzioni diverse: cosa sto provando davvero?, questa regola è mia o di altri?, cosa può cambiare se smetto di pesarmi ogni giorno? 

Lo stesso vale nel dialogo con le persone vicine: anziché articolare un interrogatorio, che fissa l’attenzione sul corpo e sul sintomo (quanto pesi adesso?, perché fai così?), alcune buone domande possono aprire, spostare l’attenzione sul vissuto (come ti senti oggi? vuoi parlarmi di cosa ti sembra stia succedendo?).

Ristorante

Una parola che è un campo minato. Non si tratta solo di cibo. Richiama un evento pubblico dove il corpo è esposto, giudicato, comparato; dove il mangiare è visibile, poco controllabile; dove le scelte accendono critica (solo un’insalata? perché non mangi il dolce? sarai mica a dieta?). 

Menu, porzione, tempo di attesa, sguardi, commenti: tutte fonti di stress. Spesso anticipate da una preparazione mentale: cosa mangerò? cosa penseranno? E da frasi come mangia dai, è solo una pizza. Cambiare il linguaggio, il ritmo e le aspettative, potrebbe fare del ristorante, di nuovo, un luogo in cui nutrirsi non è solo mangiare, ma stare con gli altri. 

S

Per la S non serve una parola: basta la lettera. Basta la sua forma: vedi nome, marchio e packaging di tutti i prodotti dietetici. Puoi anche disegnarla con curve larghe, ma basta tirarla ai due capi e diventa sottile, leggera, quasi un corpo stilizzato. Punta dritto al subliminale, fa dimagrire solo a vederla. Più è affusolata, più racconta l’ideale di magrezza. Marketing e tipografia insieme: una curva sinuosa che promette una silhouette impeccabile. Se poi torniamo alle parole: trova una parola che inizi per S tra i sinonimi di “grasso”! Ampia scelta, invece, per “magro” > scarno, scavato, scheletrico, secco, segaligno, smilzo, smunto, snello. Pure in inglese > skinny, slender, slim.

Terapia  

Al di là di diagnosi, prescrizioni, stanze di ospedali, la terapia che può reggere nei giorni bui ha gesti semplici e costanti. È la vicinanza discreta di una persona di famiglia, o amica, collega, compagna di studi o di sport, che non misura i progressi a grammi o a calorie. È il care, più che il cure: non mira a salvare, o – peggio – aggiustare la persona, ma a dirle che, anche quando non sta bene, ha qualcuno accanto. E che quel qualcuno resta, anche se non capisce, anche se ha paura.

Umorismo

Da umor, liquido, l’umore è qualcosa di fluido, di mobile, di mutevole: la capacità di adattare lo sguardo alla realtà con elasticità e spirito giocoso. Ma c’è spazio per l’umorismo in persone per le quali il corpo è cosa troppo seria? Difficile. Corpo, regole, pensieri: tutto rigido. Guai scherzarci dall’esterno (stanno ridendo di me?). E pure dall’interno: prendere distanza da sé, sbagliare e di ridere del proprio errore: intollerabile. 

E quando l’umorismo si spegne, dentro una trappola di controllo e perfezionismo, raramente si riesce a usare il linguaggio in modo giocoso. Eppure sarebbe così salvifico recuperarlo, una goccia per volta, per rifondare un rapporto morbido con la vita e con sé.

Vergogna 

Ma anche Vomito. Due parole che qui hanno un rapporto stretto. 

La vergona è un sentimento assai presente, per esempio nelle persone con bulimia nervosa, che tendono a nascondere le abitudini legate al cibo: le crisi bulimiche avvengono per lo più in segreto, con episodi pianificati, e rapidi, facili da interrompere in caso di visite o eventi inattesi.

Tra i comportamenti compensatori, poi, il più frequente è l’autoinduzione del vomito. Parola, essa stessa, capace di descrivere sia la propria causa (il processo, il viaggio in contromano di un elemento ingerito), sia il proprio effetto (il risultato, la materia oggetto di quel processo). 

Ne risulta un nesso di causalità stretto come pochi altri: la persona si abbuffa per poter vomitare, o anche vomita a comando, per poi riabbuffarsi.

Zero

Arrivata all’italiano attraverso l’arabo ṣifr, vuoto, nulla, come nell’aritmetica indica l’assenza di quantità, la dimensione del nulla, ma anche la soglia tra positivo e negativo. 

Nel nostro contesto (zero calorie, zero grassi, zero zuccheri), non è un numero: può diventare un imperativo morale, un atto di purificazione (sono quasi a zero calorie al giorno). Non è un’assenza, ma una vetta per la quale impegnarsi: cifra della purezza corporea, traguardo ambiguo che trasforma il nulla nel più stringente dei comandi.