Quali sfide attendono la società di domani? Quali sono i rischi e quali le possibilità offerte dallo sviluppo tecnologico? Per la rubrica “Futuro da sfogliare” un estratto del libro Una piccola impresa di Fulvio Romanin, edito da Apogeo.
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Un vento artico e spettrale si agita scudisciando i viali deserti di Berlino, e il sole cerca di farsi strada attraverso una spessa coltre di nuvole plumbee con un tramonto livido e incolore. È il 19 febbraio del 2024, la sera prima della firma di un contratto triennale davvero molto importante per la mia azienda, e io sto piangendo, ma non per la gioia: sto fissando giù dalla finestra del terzo piano del mio albergo, valutando molto seriamente se sia abbastanza alto per ammazzarmi se mi butterò di sotto.
Ho trascorso da solo i cinque giorni che hanno preceduto quel momento, prigioniero di una bolla di silenzio, vagando per la città a fine giornata – quasi cento chilometri a piedi secondo il mio smartwatch – un po’ per viverla da viandante quale sono, un po’ per cercarmi. Ho trascorso gran parte del nine to five delle mie giornate lavorative in una camera d’albergo a lavorare da remoto, steso sul letto con il computer appoggiato sul petto a comprimermi il cuore, aggrappato a quel poco che rimane della mia vita altrove solo da un esile filo di WiFi.
Sorrido, certo, durante le call, comportandomi come sempre in maniera affabile con i miei collaboratori, senza destare sospetti su quello che, brano a brano, mi sta divorando da dentro. Il mio pranzo è un panino, in piedi, da solo, nella stazione della metro di Charlottenburg, e poi dritto di nuovo in albergo a lavorare, come un fantasma.
Quando alla fine della giornata chiudo il computer, e con lui il lavoro, non resta più nulla di me: non esisto più, non è rimasto più nulla, qui o altrove, che sia ancora Fulvio Romanin – non affetti, non famiglia, non progetti personali, non sogni. Solo il lavoro è rimasto ancora come costante, unico metronomo e riferimento. Ma ogni sua possibile retorica e risultato non basta a riscaldarmi il cuore.

Qui non mi conosce nessuno: io per primo non so più chi io sia. Tutto quello che faceva parte della mia vita personale, e che come tale mi definiva, tracciando i miei confini e con essi la mia identità, è scomparso a morsi violenti negli ultimi tre anni. Rimangono solo vuoto, tempesta, abbandono.
Vivo la mia radicale, assoluta libertà come una condanna che non comprendo e che non merito: persisto solamente come una eco di vecchie abitudini. So, e sono consapevole, che in quel luogo oscuro e lontanissimo che si chiama domani mattina dovrò andare in un palazzo più dorato di ogni mio sogno a firmare un contratto con una grossa multinazionale: un cambiamento davvero importante che farebbe la gioia di molti. Il lavoro, che mi è stato unico timone e sestante nel vortice feroce che ha divorato pezzo dopo pezzo la mia vita e scardinato ogni mia singola certezza con certosino, Larsvontrieriano sadismo, quello stesso lavoro, mio orgoglio e mia gioia, mi sembra minuscolo, insignificante, incapace di essere, da solo, una ragione di vita. E no, certo che non lo è.
È la mia piuma di pavone sul cappello a falde larghe, le braccia muscolose che il mio fisico longilineo non possiede. Ma non la ragione della mia vita: quello davvero no. Tutta la retorica trionfale sull’imprenditoria, i soldi, il potere, la sua narrazione eroica, la competizione tossica, viste dal bordo di questa finestra berlinese sono ridicole, patetiche, vuote. La vita mi ha chiesto tanto, tantissimo, troppo e io troppo non ce l’ho, non ho più nulla. Neanche il lavoro, nemmeno quello, basta più a salvarmi l’anima. Guardo giù dalla finestra, respiro affannosamente, scuoto la testa: no, è troppo basso. Rischierei al massimo di restare invalido per il resto della mia vita. Non morirei di certo. Il mio cuore è un pugno nero e si stringe forte nel mio petto, tra rabbia e dolore. È troppo basso: scuoto di nuovo la testa, mi asciugo le lacrime, chiudo la finestra, più disperato di quando l’ho aperta.

Il mio racconto su questo episodio si concluderà qui. Tutta la discussione sulle mie private vicissitudini si chiuderà nella friulana discrezione di questa manciata di righe, che già mi è costato molto scrivere. Quando ne scrivi, quando ne parli, le aiuti a stratificarsi nella memoria e, come è facile immaginare, scaccerei volentieri questi ricordi. È stato un momento molto difficile, come a tanti, tantissimi, forse a tutti noi capita di vivere prima o poi: avere pensieri suicidi fa assolutamente parte della vita. Ci sono occasioni nelle quali la vita ci chiede più di quanto abbiamo, e siamo ciechi e sordi a tutte le altre cose belle che ci appartengono e alle quali apparteniamo.
Ma quando il dolore pulsa sempre meno forte, e il sangue rappreso si scioglie nelle vene e ricomincia a circolare – quando la ferita si rinsalda in una cicatrice e la rabbia si diluisce in una risata, tutto questo suona eccessivo, forse persino patetico: e io detesto, detesto il suono della mia voce quando si lamenta. C’è una cosa che è questo libro non sarà, e ve l’ho buttata giù dura subito, lo so: l’ennesima summa motivazionale e retorica sul mondo del lavoro, che ce n’è già tanta e serve forse a poco se non a gasarsi nei momenti di stanchezza. Non è un insieme di tabelle da commercialista e trucchi fiscali magici, che di manuali fatti da gente più brava di me è pieno.
No, io vorrei parlare del lavoro in maniera pratica, e disincantata, con occhi umani. Il lavoro, già. L’operosa attività alla quale dedichiamo larga parte della nostra giornata e dei nostri anni migliori per sopravvivere e prosperare in un ambiente sociale, talmente fondamentale per noi umani che la nostra qualifica professionale a volte precede persino il nostro nome: non Paolo, Marisa, Filippomaria, Braian e Gianlupo, ma il dentista, il macellaio, l’infermiera, il tornitore, il grafico web. Nella nostra cultura la professione diventa essa stessa un braccio, una gamba, una parte fondante della nostra fisicità, quando addirittura non un destino per noi e i nostri discendenti, fonte di privilegi sin dalla nascita. Il lavoro: quello del mondo vero, però; non busti di marmo, congressi, cavalierati del lavoro e premi altisonanti, ma eventi tremendamente emotivi e umani, di tutti i giorni: gente che ride, che soffre, che piange, errori, aziende che falliscono per litigi coniugali e familiari, clamorosi errori e successi casuali.
“L’uomo fa progetti e Dio sorride” dice un proverbio Yiddish: le più mastodontiche e tetragone programmazioni quinquennali vengono frantumate con facilità dai capricci del maelstrom del cosmo, il vortice caotico e selvaggio in continuo, incessante movimento dentro il cui dorso inconsapevole ci agitiamo noi piccoli umani; e tutti i piedistalli, specialmente quando raggiungiamo la maturità, si livellano, sembrano vanità, robetta, miserie patinate: la Grande Narrativa superomistica dell’imprenditore onnipotente sbiadisce, meschina, nel seno dell’oblio generale in pochi anni sotto il tiro di schadenfreude incrociate, e i titoli in prima pagina dei giornali di oggi, domani avvolgeranno il pesce in frigo.
Chiedetelo a ogni imprenditore che incontrerete, chiedetegli se il lavoro è tutto, se è la parte più importante della loro vita e gli vedrete baluginare gli occhi di orgoglio e imbarazzo insieme: no, certo, certo che non è tutto, certo che non basta. Il lavoro prende grande parte del mio tempo, ma non può essere tutto. E allora è meglio saperlo subito e non farsi incantare dalla competizione.
Spogliato dal suo culto dell’apparenza e dal martiriale senso del dovere, si svela nella sua parte meno nobile, più vile: la sbrilluccicante ruota del criceto chiamata capitalismo2. In ogni contesto dove la quantità dei beni disponibili è un numero finito, dalle società contadine che sopravvivono contendendosi il raccolto frutto per frutto, pecora per pecora3, al grattacielo delle mega corporation tech che ai poveri ruba persino il cielo – l’invidia, il contendersi i beni, resta un motore sociale straordinario, che siamo riusciti a vestire nella lusinghiera narrazione di una guerra giusta e santa senza spade – dove i guerrieri brandiscono stock option e maglioni neri a dolce vita. E no, certo, non è la narrazione dove vivo io e dove vive la maggior parte della gente. Si chiama impresa perché è difficile, e ogni tanto – no, spesso – è facile sentirsi soli e senza una rotta. Perché, sorpresa, una rotta non c’è, ve la dovete inventare voi.
“Il cammino si fa camminando” ed è prodigioso e terrificante insieme. Questo libro è per chi abbia già una Partita IVA e voglia sfruttare le (non poche) opportunità frutto del creare azienda per crescere ancora e rendersi più forti nella propria professione, e anche per chi, invece, sia appena all’inizio. La partita IVA – specie il forfettario – è uno strumento fiscalmente vantaggioso, ma non necessariamente l’orizzonte più grande al quale dovrete e vorrete aspirare per il resto della vostra vita.
Magari siete più ambiziosi di così, e per fortuna. Questo è un piccolo manuale pensato in primis per quelle che lo stato definisce “microimpresa”, con meno di dieci dipendenti, meno di due milioni di fatturato, e “piccola impresa”, fino a cinquanta dipendenti, sotto i 10 milioni, e già sono due mondi radicalmente diversi tra di loro4. In tutto questo, ciao: piacere. Ve l’ho già accennato, mi chiamo Fulvio, un nome che mi è sempre stato sulle balle fin quando, dopo un po’, non si è trasformato, nella mia testa, in FulvioRomanin
, sembra un nome d’altri tempi, quasi da gentiluomo di mezza età della Serenissima Repubblica di Venezia nell’ottocento, o così almeno mi piace immaginarlo. Sono il titolare cinquantaquattrenne5 di una dei seicento trilioni di microimprese nordestine: facciamo ecommerce e siti internet, roba che era nuova vent’anni fa e che per pigrizia mediatica viene chiamata ancora “nuova tecnologia”.
Tempo addietro avevo scritto un altro fortunato saggio, L’IVA funesta, sul mondo del lavoro indipendente: e scriverlo mi è sembrato molto più leggero e facile di questo, il viaggio più breve e modesto. Parlerò anche delle mie esperienze ma, come presto vi accorgerete, sembrerà quasi sempre che io ci sia caduto, dentro i miei aneddoti: un po’ il contrario della narrazione egoriferita da imprenditore arrogante. In questo capitolo scalderemo i muscoli con un po’ di teoria, e poi andremo dritti pe’ dritti alle cose molto pratiche, tremendamente pratiche, che non siano solo robe da commercialista, che quelle ve le deve fare il commercialista. Ve lo anticipo: il libro è partito pesante, ma io sono un estroverso per natura e spero di farvi fare più di qualche risata tra le righe delle cose serie, perché sennò più di un manuale sarebbe un Bignami di agonia. Ma ci tenevo a essere leale con voi sin da subito e a farvi capire – a spese mie – che, dal bordo di un balcone, la retorica sarà solo un altro vuoto in più davanti a voi. Partiamo, dunque.