Connessioni Future, il racconto della Sardegna che cambia in un ecosistema che lega imprese e ricerca

Connessioni Future, il racconto della Sardegna che cambia in un ecosistema che lega imprese e ricerca

L’innovazione, in Sardegna, non è un miraggio. È un processo che cresce tra università, startup, enti locali e fondazioni che non hanno mai smesso di parlarsi. A Sassari, Connessioni Future ne offre la fotografia: un ecosistema che, passo dopo passo, olia gli ingranaggi della propria macchina, costruendo legami tra impresa, ricerca e territorio.

Quest’anno l’evento arriva in un momento cruciale. Fondazione di Sardegna ha appena approvato il Documento Programmatico 2026 e il Piano 2026-2028, ponendo innovazione e capitale umano al centro della sua strategia. Il futuro, qui, non è più un tema da convegno: è sentito come una responsabilità collettiva.

Il nuovo piano della Fondazione di Sardegna

Nel suo nuovo piano triennale, la Fondazione individua quattro assi strategici: Educazione, Innovazione, Cultura e Sociale. Leve per rafforzare la coesione e la competitività dell’isola. L’obiettivo dichiarato è duplice: da un lato, consolidare le reti di ricerca e trasferimento tecnologico. Dall’altro, favorire la crescita delle competenze, soprattutto tra giovani e imprese locali.

Nel documento si parla esplicitamente di “Sardegna come terra di futuro”, un concetto che suona come manifesto politico e civile. L’innovazione non viene più intesa solo come digitalizzazione o startup, ma come capacità di orientare le risorse del territorio verso la conoscenza, la collaborazione e l’apertura internazionale. Lo stesso linguaggio che da tre anni anima Connessioni Future.

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Accanto alla visione strategica arrivano i bandi annuali 2026, per oltre 13 milioni di euro: 2,88 milioni per arte e cultura, 2,55 per volontariato e filantropia, 1,07 per sviluppo locale e 1,13 per salute pubblica. Le domande sono aperte fino al 5 dicembre 2025 tramite la piattaforma ROL. Al di là dei numeri, l’impostazione è chiara: non semplice erogazione di fondi, ma strumenti di collaborazione tra enti, imprese e università, con attenzione alla sostenibilità, alla transizione digitale e alle competenze tecnologiche.

Il palco di Connessioni Future

Connessioni Future racconta ciò che questo ecosistema sta già costruendo. Il format alterna momenti di confronto pubblico, pitch, incontri B2B e talk su AI, impresa, sostenibilità e cultura digitale. L’obiettivo è creare connessioni reali, non slogan. Sassari diventa un laboratorio di politiche locali, dove amministrazioni, università, investitori e nuove generazioni di imprenditori provano a praticare una forma concreta di open innovation territoriale.

In questo quadro si inserisce l’intervento di Davide Coero Borga, divulgatore scientifico che ha offerto una chiave potente per leggere il rapporto tra apprendimento e innovazione. Per Coero Borga, la storia dell’uomo è una lunga lezione di adattamento: siamo sopravvissuti perché abbiamo imparato. L’apprendimento, la paideia, è la vera infrastruttura evolutiva della nostra specie. Oggi quella spinta a conoscere si traduce in una parola tecnica ma decisiva: STEM.

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Scienza, Tecnologia, Ingegneria e Matematica non sono più solo ambiti accademici, ma strumenti di sopravvivenza nel mondo digitale. E i dati lo confermano: l’Agricoltura 4.0 vale già oltre 600 milioni di euro in Italia, mentre in Europa restano scoperti mezzo milione di posti da data analyst. E proprio qui si gioca la sfida culturale più grande: ridurre il divario di genere. Oggi solo il 16,7% delle donne laureate sceglie percorsi STEM, contro il 37% degli uomini. Colmare questa distanza non è solo questione di equità, ma di intelligenza collettiva: il talento non ha genere, e il futuro non può permettersi di sprecarlo.

Connessioni Future mette questa verità al centro del dibattito, ricordando che l’innovazione non è solo una questione tecnica: è una forma di educazione permanente, una responsabilità culturale che attraversa le generazioni.

Human after all: la lezione di Cristiana Collu

La seconda giornata si chiude con la lectio di Cristiana Collu, storica dell’arte e direttrice della Fondazione Querini Stampalia. Il titolo, I see, I create, I am only human after all, è già un manifesto. Gioca sull’ambiguità dell’inglese, dove il vedere tocca l’identità: guardare non è un automatismo, ma un atto fondativo. Lo sguardo precede l’opera, ne anticipa la forma.

Collu intreccia riferimenti pop e filosofici, da Blade Runner ai Daft Punk, per arrivare a una tesi netta: se la macchina può essere more human than human in molti compiti, allora l’umano deve riconoscere ciò che di sé non è replicabile. L’imperfezione, l’imprevisto, l’affettività. Creare non è una versione nobile del fare: è dichiarare presenza attiva nel mondo, assumersi responsabilità, intervenire nella realtà partendo da un limite.

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Anche il vedere è un gesto relazionale. Dire “vedo” non è registrare un oggetto, ma comprenderlo, tentare di spostarsi nel punto di vista dell’altro. La conoscenza non è mai solitaria. La macchina processa immagini; l’umano costruisce visioni condivise.

Collu struttura la sua lectio su tre parole: connessioni, legami, contaminazioni. La connessione appartiene all’architettura dei sistemi. Il legame riguarda il corpo e l’affetto, con le sue ambivalenze. La contaminazione è il territorio dove identità e alterità si trasformano. Contaminare significa accettare l’imprecisione come condizione vitale: ciò che vive cambia, si mescola, non resta mai puro.

Disconnessione consapevole

In questo quadro, anche la disconnessione assume un valore nuovo. Non è una fuga, ma un atto di igiene, di lucidità. Di fronte alla saturazione dei legami digitali, scegliere l’intervallo è quasi un gesto politico. Disconnettersi non annulla il legame, lo misura, e spesso ci riporta a un’altra forma di connessione: quella con noi stessi.

Da qui Collu introduce Jung e la necessità di integrare le nostre parti interne. La connessione autentica, ricorda, è possibile solo per chi accetta la propria complessità. Se non siamo capaci di abitare il conflitto interno, rischiamo di costruire tecnologie che amplificano proprio ciò che non sappiamo gestire.

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Il discorso si sposta poi sulle immagini. Collu accosta il fotomontaggio satirico di Tony Blair di Kennard Phillips alle fotografie di Giusy Calia, ricordando come la fotografia di guerra un tempo fosse l’ultimo baluardo del reale. Oggi, nell’era dell’AI generativa, la prova fotografica ha perso la sua infallibilità. Diventa urgente esercitare uno sguardo critico: custodire la verità in un mondo dove l’immagine mente con naturalezza. Il riferimento ai ladri col gilet giallo è perfetto: non inganna ciò che si nasconde, ma ciò che è troppo visibile. L’eccesso di immagini ci rende ciechi.

Il finale guarda al futuro. Collu evoca il futuro anteriore come postura etica: pensarsi come passato del futuro. Ogni gesto diventa traccia per chi verrà. Richiama Hillman e la sua “ghianda”, e persino Scrat dell’Era Glaciale, per dire che ognuno di noi ha una vocazione che inseguirà sempre, anche quando fa tremare il terreno sotto i piedi. La noce che Collu mostra sul palco, simile a un cervello, chiude la metafora: il futuro non va consumato, va assimilato.Connessioni Future, in questo incrocio di visioni, torna al suo cuore: non chiedersi solo con chi siamo connessi, ma come vogliamo abitare queste relazioni. E quanto siamo disposti a farci trasformare da ciò che vediamo.

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