Ci sono territori che, visti da lontano, sembrano quasi fermi: campi in rotazione, filari spogliati dal vento, capannoni industriali che emettono un ronzio sommesso. E poi ci sono luoghi in cui la transizione energetica ha già iniziato a mettere radici, silenziosa come una fermentazione e potente come una reazione termochimica. È in questo incontro tra terra e tecnologia che prende forma lo Spoke 3 – Bioenergy & New Biofuels for Sustainable Future di Fondazione NEST, un laboratorio diffuso capace di far dialogare microonde, suoli marginali, scarti agricoli e infrastrutture industriali coordinato dall’Università di Pisa.
La sua storia non parte da un singolo progetto, ma da una costellazione di esperimenti che condividono la stessa ambizione: trasformare ciò che oggi consideriamo rifiuto in energia, valore e fertilità. Da un lato, la chimica avanzata – microonde che accelerano processi, microalghe che diventano biocarburanti, plastiche che ritrovano vita sotto forma di syngas. Dall’altro, il territorio che si racconta da sé attraverso mappe, geodatabase e rotazioni colturali: un’Italia vista dall’alto, dove ogni potatura, ogni refluo, ogni residuo agricolo diventa un dato, un potenziale, una filiera possibile.
È qui che crolla il mito più ostinato, quello del “food vs fuel”. Lo Spoke 3 mostra che non bisogna scegliere: basta progettare bene. Le bioenergie non sono rivali dell’agricoltura, ma il suo alleato più discreto, capace di arricchire i suoli, ridurre fertilizzanti, trattenere carbonio. E, quando la filiera funziona, può perfino diventare carbon negative.
Eppure la sfida più grande arriva quando si esce dal laboratorio. Tra un Technology Readiness Level (TRL) 3–4 e un impianto in funzione c’è la “Valley of Death”, dove molte tecnologie si fermano per mancanza di capitali, certificazioni, strumenti di de-risking. È qui che NEST e lo Spoke 3 hanno deciso di agire: validare, integrare, creare dimostratori condivisi per rendere l’innovazione investibile.
Così, mentre le mappe di ENEA individuano le aree più promettenti – dalla Pianura Padana alla Basilicata – la Fondazione costruisce un’infrastruttura di conoscenza che può guidare politiche energetiche e industriali. Non solo un incubatore di startup, ma un luogo dove ricerca, industria e istituzioni imparano a parlare la stessa lingua.

Ne abbiamo parlato con Leonardo Tognotti, Full Professor of Chemical Engineering al Dipartimento di Ingegneria Civile e Industriale dell’Università di Pisa. Il professore è spoke leader e coordina tutte le attività.
Professore, se dovesse scegliere oggi un “progetto bandiera” dello Spoke 3 da mostrare a un decisore pubblico, quale sarebbe?
Se dovessi scegliere un progetto bandiera per rappresentare lo Spoke 3, sarei in grossa difficoltà vista la qualità e la quantità delle attività in atto nello spoke. Allo scopo di operare comunque una selezione, ne indicherei due, complementari tra loro: uno tecnologico-industriale e uno territoriale-agroenergetico.
Me li spieghi meglio…
All’interno dello Spoke 3 si possono individuare, tra gli altri, due progetti bandiera: uno tecnologico-industriale e uno territoriale-agroenergetico. Il primo riguarda l’uso delle microonde in processi termochimici per trasformare scarti plastici, biomasse e microalghe in idrogeno e biocarburanti avanzati, aumentando l’efficienza e riducendo i residui. Coinvolge aziende e consorzi del trattamento rifiuti, creando filiere di bioenergia in ottica di economia circolare. Il secondo progetto mappa le principali biomasse sostenibili in Italia attraverso un geodatabase e un WebGIS aggiornati. Questo permette di sviluppare filiere locali “su misura” per produrre biometano, biooli e biochar, migliorando la fertilità dei suoli e riducendo le emissioni. Insieme mostrano come la transizione energetica possa partire dai territori, unendo tecnologia, agricoltura e rigenerazione ambientale.
Le bioenergie funzionano davvero solo con filiere corte? In quali zone italiane vede oggi le “biomasse giuste” e che catena del valore locale immagina per convertirle in biocarburanti avanzati?
Non esiste una sola “filiera corta”, ma molte filiere su misura. La scala dipende dal tipo di energia e dalla biomassa. I piccoli impianti di cogenerazione o digestione anaerobica funzionano bene a livello locale, mentre i biocarburanti avanzati per aviazione o trasporti pesanti richiedono grandi impianti industriali. L’idea è che le biomasse partano dal territorio, ma convergano su infrastrutture di scala nazionale: locale nella risorsa, industriale nella trasformazione. Le mappe ENEA mostrano aree promettenti nel Lazio, Umbria, Puglia, Basilicata e Pianura Padana, dove residui agroforestali e colture non food possono alimentare piattaforme di biogas, biochar e biofuel. È un modello di bioeconomia a rete che collega agricoltura, industria e politiche climatiche.
Qual è il falso mito più dannoso sulle bioenergie e quale messaggio corretto portare agli studenti o ai non addetti ai lavori?
Il mito “food vs fuel” è fuorviante: non è la bioenergia a sottrarre risorse al cibo, ma filiere mal progettate. Quando la filiera è costruita bene, bioenergia e agricoltura si rafforzano a vicenda, migliorando il suolo e la produttività. Rotazioni colturali intelligenti permettono di aumentare la sostanza organica, ridurre fertilizzanti e catturare CO₂. Lo Spoke 3 mostra che la bioenergia può essere carbon neutral o persino carbon negative, grazie al biochar, al recupero dei terreni e all’uso degli scarti. Queste soluzioni valorizzano biomasse senza competere con le colture alimentari né aumentare i prelievi. Quindi non esistono filiere “buone” o “cattive”, ma filiere progettate bene — e quelle circolari sono un potente alleato della decarbonizzazione.
Dal TRL 3–4 al mercato: quali leve servono davvero per accelerare?
Il passaggio dal laboratorio al mercato è il tratto più difficile, la famosa “Valley of Death”. I primi impianti dimostrativi sono fondamentali, ma spesso non ancora finanziabili. Lo Spoke 3 lavora proprio qui: sviluppa tecnologie ancora immature e le testa con open call e partner industriali. Per scalare servono strumenti di finanza mista, incentivi mirati e standard di certificazione comuni. Solo così si attira capitale privato e si riduce il rischio delle prime applicazioni. In poche parole: l’innovazione diventa investibile quando università, enti pubblici e aziende costruiscono insieme i dimostratori.
Guardando alla Fondazione NEST, qual è il valore aggiunto che può dare al sistema Paese?
Il vero valore di NEST non è solo coordinare i progetti, ma costruire un’infrastruttura di conoscenza e policy per la transizione energetica. Lavorando a TRL 3–6, la Fondazione produce dati, scenari e competenze che possono guidare le scelte di lungo periodo su bioenergie, idrogeno, accumuli e materiali avanzati. In questa prospettiva, NEST può diventare il punto di riferimento tecnico per i policy maker e per le Regioni, traducendo i risultati della ricerca in proposte concrete e scenari realistici. Non un semplice incubatore di startup, ma un “policy hub” nazionale capace di unire ricerca, industria e amministrazione pubblica, e di far durare nel tempo il valore del partenariato.