Berretti (TIP): «Poche Bending Spoons in Europa, per crescere bisogna rinunciare al proprio orticello»

Berretti (TIP): «Poche Bending Spoons in Europa, per crescere bisogna rinunciare al proprio orticello»

«Mettersi insieme, condividere progettualità, allineare gli interessi non è esattamente nel DNA degli italiani, da sempre più portati all’individualismo. Ma così non funziona più. Il mondo di oggi richiede spalle sempre più larghe, non solo in termini finanziari ma anche di competenze, relazioni ed infrastrutture. Bisognerebbe quindi imparare a rinunciare al proprio orticello a vantaggio di progetti di più ampia portata e con maggiori probabilità di successo. Purtroppo storie come quella di Bending Spoons, di cui siamo orgogliosi azionisti da molti anni, si contano sulle dita di una mano in Europa, figuriamoci in Italia». Claudio Berretti, Direttore Generale di Tamburi Investment Partners, è il protagonista della nuova puntata del nostro ciclo di interviste del lunedì con i protagonisti del mondo degli investimenti. Sarà tra gli speaker di SIOS25, in programma il 17 dicembre a Milano, a Palazzo Mezzanotte. In questi giorni di vigilia dell’Open Summit portiamo nel dibattito alcune considerazioni di un profilo che opera in una delle società storiche italiane specializzate nell’equity.

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Tamburi Investment Partners è stata lanciata nel 2000. Qual è la vostra storia?
Agli inizi, negli anni Novanta, operavamo come boutique di M&A, aiutando multinazionali ma soprattutto tanti imprenditori italiani in tutto ciò che era etichettabile come finanza straordinaria: fusioni, acquisizioni, quotazioni, finanziamenti, ottimizzazioni di governance nelle aziende familiari. Col tempo abbiamo capito, vista anche la configurazione del tessuto imprenditoriale italiano, che nel mondo dell’equity esisteva un’opportunità da cogliere. Nella fattispecie da investitore di minoranza di vero lungo termine a supporto di vere storie di crescita. Abbiamo sempre creduto che i percorsi di aggregazione, nazionali e internazionali, fossero una condizione necessaria per competere davvero, per giocare in “Champions League”. Così, all’epoca, ci siamo chiesti se, oltre a fare i consulenti, potessimo anche condividere – come soci di minoranza, da veri partner – i percorsi di crescita e consolidamento delle aziende.

Era un’altra epoca per l’economia e per il digitale.
Era il 1999 quando immaginammo questo progetto, in un clima di grande euforia figlio della prima ondata internet. Molti clienti ci seguirono, si fidarono, e un centinaio di famiglie decisero di investire nella nostra iniziativa. Nel 2005 ci siamo poi quotati in Borsa. Da allora abbiamo investito oltre 5 miliardi di euro, inclusi i club deal. Il primo fu nel 2003, coinvolgendo alcuni nostri investitori per partecipare a un’operazione allora troppo grande per TIP. Questo schema si è ripetuto nel tempo e ci ha permesso di generare un effetto moltiplicatore significativo in termini di investimenti a beneficio delle aziende partecipate. E di questo ne andiamo orgogliosi.

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Veniamo all’oggi: che anno è stato il 2025 dal vostro punto di vista?
Un anno affrontato con grande cautela. La nostra priorità era, ed è, concentrarci sul portafoglio. Ci sono state ottime opportunità lato M&A e altre ne arriveranno: abbiamo supportato e continueremo a supportare le nostre società con competenze, coraggio e risorse finanziarie. Parallelamente, abbiamo avviato un percorso di semplificazione della struttura del gruppo. Per l’anno in arrivo manterremo questo approccio: siamo pronti a cogliere opportunità di consolidamento e preferiamo investire un po’ di più nelle società che già conosciamo bene piuttosto che in nuove realtà, salvo che non si presenti un’occasione davvero interessante e coerente al nostro modello. Il mondo dell’equity è chiaramente in sofferenza: nel segmento della media azienda i mercati finanziari sono stati asfittici specie per le IPO in Europa ed in particolare in Italia. Confidiamo che il 2026 segni un’inversione di tendenza. Oggi tutto è polarizzato su banche, big tech e difesa. Complici anche gli algoritmi che governano il mercato, ci siamo dimenticati un po’ delle medie aziende. Ma sono cicli che abbiamo già visto.

Tra le società in cui avete investito ci sono anche importanti ex startup.
Più di quindici anni fa abbiamo deciso di entrare nel mondo del digitale e dell’innovazione, consapevoli che non fosse un mondo parallelo a quello delle aziende tradizionali, ma sempre più trasversale e destinato a incrociare i loro modelli di business. Lo abbiamo fatto per favorire progetti sistemici, che generassero confronto sia con noi sia con le nostre partecipate e i nostri azionisti. Abbiamo iniziato da Digital Magics (oggi ZEST, ndr) e Talent Garden: la prima perché era percepita come un vivaio di startup, la seconda perché era un luogo fisico dove quelle realtà nascevano e si sviluppavano. Questo approccio ci ha permesso di intercettare opportunità importanti. La più significativa è stata senza dubbio Bending Spoons: oggi il valore della nostra partecipazione supera i 300 milioni di euro. Ma anche JOIVY, DIDIMORA e PLANEAT sono storie interessanti. Quanto sta facendo in particolare Bending Spoons è sotto gli occhi di tutti: da italiani, oltre che da investitori, sono risultati che riempiono d’orgoglio e dimostrano che si può fare anche qui.

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Luca Ferrari, Ceo di Bending Spoons

Cosa manca oggi all’ecosistema nazionale per compiere il salto?
Come premesso, un po’ più di voglia di fare sistema: di aggregare progettualità, rinunciando ai propri orticelli. Il nostro sforzo di mettere insieme Digital Magics e LVenture nasce da questa convinzione. In Italia c’è certamente CDP Venture Capital che ha fatto molto, ma vediamo anche tantissimi battitori liberi: VC, crowdfunding, club deal di vario tipo, acceleratori universitari. Ognuno per conto suo. Ma servono spalle larghe specie in questo settore di per sé molto fragile. Manca la voglia di fare squadra e troppo spesso ci piangiamo addosso perché “altrove ci sono più soldi”. Storie come Bending Spoons dimostrano che non è così.

In portafoglio avete anche grandi brand come OVS, Amplifon o Alpitour. Il futuro delle aziende storiche italiane può beneficiare delle startup?
Noi stimoliamo continuamente l’open innovation: vogliamo fare da ponte tra startup e aziende mature. Ci sono settori in cui il coinvolgimento del digitale è più immediato – come per OVS o Amplifon – ma anche realtà come Alpitour hanno investito negli ultimi anni decine di milioni in tecnologia, facendola diventare cuore pulsante dell’azienda ed arrivando ad avere oltre 100 sviluppatori. In un Paese come l’Italia, dove la piccola e media impresa è il nostro vero “petrolio”, favorire la cross-fertilization tra innovazione e aziende consolidate è fondamentale: stimola le imprese tradizionali, le rende più efficienti, e allo stesso tempo permette alle startup di trovare accesso reale al mercato.

Che futuro immaginate per l’ecosistema italiano?
Il nostro mercato dei capitali è asfittico: qualsiasi iniziativa che possa vivacizzarlo come semplificazioni regolamentari, stimoli fiscali, creazione di nuovi fondi è benvenuta. Le aziende italiane sono ancora piccole, hanno bisogno di equity, soprattutto in un contesto in cui le banche finanziano sempre meno e in maniera sempre più selettiva e l’accesso alla bondistica o al private credit non è per tutti. La priorità dovrebbe essere stimolare percorsi sani di quotazione e aggregazione. Purtroppo, alcune proposte della Finanziaria – come una possibile revisione al rialzo della Tobin tax o del trattamento fiscale di dividendi e PEX – non vanno in questa direzione. Anzi, in direzione contraria.

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SIOS quest’anno compie dieci anni. Quali stimoli porterebbe al dibattito?
Essere meno solisti, più capaci di condividere progettualità e mettere a fattor comune competenze e risorse. È fondamentale non solo per stare sul mercato ma anche e soprattutto per diventare più attrattivi verso i talenti, risorsa sempre più scarsa e contesa a livello globale.

Nel 2025 si è parlato molto di indipendenza tecnologica europea. Che scenario abbiamo davanti?
Su molti settori l’Europa ha ormai perso il treno. Dobbiamo investire su ciò in cui siamo forti, usando la tecnologia degli altri nei campi in cui servono investimenti da decine o centinaia di miliardi, che pochi possono permettersi di sviluppare ma che alla fine è disponibile per tutti. Penso alle nostre aziende manifatturiere, del design e della moda, ma anche all’hospitality: settori in cui non abbiamo nulla da invidiare ad asiatici e americani e verso cui dobbiamo continuare a esportare o vendere. L’obiettivo è efficientare i processi e renderci sempre più competitivi, facendo al contempo leva sulla capacità di adattamento e creatività degli imprenditori italiani, unica al mondo: diventare, per alcune categorie merceologiche, una “fabbrica intelligente” del mondo, oltre che una destinazione turistica di fascia alta sempre più attrattiva.