Si sgrana in dieci mini testimonianze il libro di Laura Nacci Parole e potere al lavoro. Il gender gap in dieci racconti linguistici (Tab edizioni), ovvero dieci casi-studio su parole del mondo del lavoro. L’autrice le accosta a partire dalla loro origine etimologica (la carriera? Centra con i carri e cavalli; il mobbing? Ha a che fare con gli uccelli osservati da Konrad Lorenz; le quote rosa sono un paradossale inciampo linguistico), per seguirne poi lo sviluppo storico e arrivare all’uso contemporaneo, mettendo a fuoco l’itinerario che le parole percorrono e tutto quello che incorporano delle società e dei tempi che attraversano lungo la loro evoluzione linguistica e lessicale.
La premessa è tutta nelle prime righe dove Nacci, ricordando quando, ragazzina, a Valnontey assistette accanto ai genitori alla caduta di una valanga, ne fa metafora del linguaggio: come le valanghe, le parole possono generare urti, anche disastrosi. Montando, assimilano dal terreno ogni genere di detrito, leggi pregiudizi, stereotipi, doppi standard, e poi cambiano via via forma, si ingrossano di volume e, rotolando, modellano quello che incontrano, leggi vite e storie individuali. Insomma, le parole non sono soltanto parole: costruiscono disuguaglianze reali, fisiche, palpabili vuole dire Laura Nacci, che è divulgatrice linguistica, TEDx speaker e direttrice della formazione di She Tech, ente no profit che lavora per portare la parità di genere nel mondo digitale e tech. Oppure, al contrario, le parole possono modellare cambiamenti, plasmare opportunità, generare progressi. Dipende.
Le parole non sono neutrali
Dipende se si è consapevoli del fatto che le parole non sono neutrali. E, consapevoli o meno, dipende da come le si spende. Nacci parte dalla scienza per dimostrare come un termine in apparenza neutro – scienza, appunto – può, se applicato in maniera distorta, combinare il danno di spegnere le carriere delle femmine, mentre proietta nel futuro quelle dei maschi. «Avete mai fatto caso», scrive, «a quale sfera semantica riconducano i testi descrittivi delle scatole da gioco consigliate per le bambine tra gli otto e i dodici anni, inerenti al macrotema della scienza? Provate a cercare online o in qualche centro commerciale e troverete “La scienza della cosmesi”(ma anche dei glitter!), “Laboratorio dello smalto” (ma anche dei rossetti, dei profumi…), “Il superlaboratorio del benessere”. E sempre per la stessa fascia d’età, cosa viene proposto ai maschi? “Laboratorio di paleontologia” (ma anche di vulcanologia, dello spazio…), “Il superlaboratorio di ingegneria e meccanica» (ma anche dei 111 esperimenti di chimica, fisica, scienza della terra, botanica, ottica…)”. Non stupiamoci poi se le universitarie in materie STEM sono pochissime – il 20% o giù di lì – e se le donne che lavorano nei settori in espansione determinanti per l’evoluzione del mondo, come tech e scienza, siano oggi ancora una specie di anomalia.
Uscire dalle narrazioni a senso unico
Per convincere del fatto che le parole possono modificare i paesaggi esattamente come le valanghe, l’autrice combina i racconti personali e le testimonianze di professioniste chiamate via via in causa con l’analisi linguistica rigorosa di dieci termini, sempre perfettamente a cavallo tra teoria e pratica: stereotipo, carriera, soffitto di cristallo, quote rosa, gender pay gap, mobbing, pinkwashing, molestia, stalking, mansplaining. E se dire donna in carriera è già la prova che la carriera è scontata per gli uomini e non per le donne (e infatti uomo in carriera non si dice perché non c’è bisogno di specificarlo, appunto), nominare mansplaining o stalking o pinkwashing è già un’opzione per contrastarli. Resta la sfida di uscire dalle narrazioni a senso unico a cui il mondo del lavoro ci ha abituato, e capire come si sono formate le parole più lineari e comuni può aiutare a farlo. Esemplare la genesi di stereotipo. La parola viene coniata in una tipografia francese a fine Settecento, per battezzare l’invenzione di una tecnica di stampa a matrice fissa, capace di replicare la medesima pagina, tagliando costi e tempi: è la stessa scorciatoia di quando un’immagine preconcetta, semplificata e generalizzata viene usata su larga scala – come la matrice tipografica – per categorizzare un gruppo di persone, è uno stereotipo, appunto!
Serve un nuovo linguaggio
Nacci, che si occupa di formazione e conosce molto bene il doppio standard nel mondo del lavoro, ci convince, attraverso una batteria di dati di contesto, del fatto che le narrazioni stereotipate, i luoghi comuni sessisti, i pregiudizi sono dunque molto più che inciampi linguistici: sono assunti culturali potenti che orientano la sensibilità pubblica, cambiano le rappresentazioni professionali, decidono i percorsi di studio e le carriere, impattano sulle retribuzioni. C’è bisogno di un nuovo linguaggio, dice Nacci, e di nuove sfumature semantiche per rappresentare un mondo più equo; in Italia, le donne Ceo sono appena il 4%, appunto.