La COP30, che si svolgerà dal 10 al 21 novembre a Belem, nel cuore dell’Amazzonia, marca il decimo anniversario dell’Accordo di Parigi e offre un’occasione di riflettere su come sia cambiata la percezione dell’emergenza legata al cambiamento climatico in un quadro politico ed economico che si è profondamente modificato anche a causa delle conseguenze della pandemia e delle crisi geopolitiche che hanno caratterizzato gli ultimi anni.
Torniamo al 2015, quando i rappresentanti di 195 Paesi si sono incontrati a Parigi per discutere un piano per salvare il pianeta dal cambiamento climatico. Lo hanno chiamato Accordo di Parigi, ma, si trattava di una pietra miliare della politica climatica: un impegno globale per evitare un catastrofico aumento della temperatura e garantire un futuro più vivibile per tutti. Barack Obama, applaudendo l’accordo come presidente, aveva dichiarato che è “la migliore possibilità che abbiamo per salvare l’unico pianeta che abbiamo”.
Perché il documento firmato a Parigi nel dicembre 2015 passasse da una dichiarazione di buone intenzioni ad un impegno concreto occorreva che venisse superato un doppio quorum. Si era stabilito che fosse necessaria la ratifica di non meno di 55 paesi le cui emissioni superassero il 55% del totale mondiale.
Obama e il premier cinese, a nome dei due maggiori produttori di gas serra, avevano dato il buon esempio firmando a settembre 2016 a lato del G20 in Cina. Il 2 ottobre 2016 aveva firmato l’India portando il conteggio a 62 paesi con il 52% delle emissioni.
L’Unione europea, responsabile del 12% delle emissioni, ha ratificato il 4 ottobre ed e stato proprio il voto del parlamento europeo a fare superare il quorum delle emissioni e a fare scattare il conto alla rovescia per l’entrata in vigore degli accordi di Parigi che è avvenuta il 4 novembre 2016
Un successo epocale della diplomazia sicuramente spinto dalle preoccupazioni per un clima sempre più caldo. A molti l’Accordo di Parigi era sembrato la promessa di un’era completamente nuova, non solo per il clima ma anche per il futuro politico condiviso sul nostro pianeta. L’allora segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, diceva che la sostenibilità sarebbe stata la base per un nuovo ordine morale e politico. Il suo successore, António Guterres, si è rivelato un sostenitore ancora più deciso dell’Accordo di Parigi. Tuttavia, erano in molti a temere che l’obiettivo di limitare l’aumento della temperatura a 1,5° fosse già irrealizzabile visto l’andamento delle temperature negli ultimi anni unito al continuo aumento dell’emissione di gas serra. I pessimisti sono stati facili profeti perché nel 2024 la soglia dei 1,5° di temperatura è stata superata, almeno temporaneamente.

Purtroppo, con le loro emissioni, i paesi ricchi soffocano il futuro di quelli poveri che non hanno contribuito all’aumento della temperatura ma ne pagano in modo sproporzionato le conseguenze. In effetti, i politici hanno sempre respinto le richieste anche solo di discutere le riparazioni climatiche, preferendo promettere trilioni di dollari in investimenti energetici a scopo di lucro nel Sud del mondo. Supportare la transizione verde dei paesi più poveri era apparsa ai leader mondiali come un modo più attraente e orientato al futuro per lavarsi la coscienza, ma ben poco è stato fatto nel campo della giustizia climatica.
Dieci anni dopo, viviamo in un mondo molto diverso. Alla Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (COP29) dello scorso anno, il presidente del paese ospitante, Ilham Aliyev dell’Azerbaigian, ha elogiato il petrolio e il gas come “doni di Dio”, e sebbene le conferenze annuali dopo Parigi abbiano spesso visto la presenza di molti capi di stato, questa volta si sono visto pochi leader mondiali. Mancavano i presidenti di Stati Uniti, Cina ed Unione Europea, e non c’erano neanche personaggi di spicco come Macron e Lula.
Alla fine della conferenza, un rapporto ufficiale delle Nazioni Unite dichiarava che non era stato compiuto alcun progresso sul clima rispetto all’anno precedente, e molti dei più importanti artefici dell’intero processo diplomatico che aveva portato all’accordo di Parigi hanno pubblicato una lettera aperta in cui dichiaravano come l’architettura dell’accordo apparisse obsoleta e bisognosa di importanti riforme.
La conferenza di quest’anno dovrebbe essere più significativa: la COP30 segna 10 anni da Parigi, e tutte le 195 parti dell’accordo del 2015 dovrebbero arrivare con piani di decarbonizzazione aggiornati, chiamati N.D.C., per contributi determinati a livello nazionale. Ma alla scadenza formale dello scorso febbraio, solo 15 paesi – appena l’8% – avevano presentato i loro piani. Nei mesi successivi ne sono arrivati altri, ma il climatologo Piers Forster, che ha esaminato la documentazione, dice che solo uno è compatibile con gli obiettivi dell’Accordo di Parigi, mentre più della metà dei piani rappresentano un passo indietro.
La ritirata più evidente è stata quella degli Stati Uniti dove Trump ha celebrato la sua nuova presidenza ritirando nuovamente gli USA dall’Accordo e smantellando completamente la legge sul clima firmata da Biden con la minaccia di non autorizzare nuove installazioni di rinnovabili e di fermare quelle in costruzione.
Anche se il voltafaccia americano è il più spettacolare, l’arretramento dalla politica climatica è diffuso, pur nel mezzo di un boom globale dell’energia verde. In molti paesi – per esempio in Sud America e in Europa – le leggi per la transizione verde, approvate sull’onda dell’accordo di Parigi, sono già state indebolite o sono sotto la pressione di mutevoli coalizioni politiche che ora spingono a indebolirle.
Ha fatto notizia la pubblicazione, giusto in vista della COP30, di un memo di Bill Gates intitolato Tre difficili verità sul clima dove dice che l’aumento della temperatura non causerà la fine della nostra civiltà, a patto che gli investimenti siano diretti più alla mitigazione degli effetti del riscaldamento globale che alla riduzione delle emissioni. Gates non mette affatto in dubbio il riscaldamento globale, propone di ripensare la strategia alla base dell’accordo di Parigi e dice
“Questa è un’opportunità per concentrarsi nuovamente su un parametro che dovrebbe contare ancora più delle emissioni e del cambiamento di temperatura: migliorare la vita. Il nostro obiettivo principale dovrebbe essere quello di prevenire la sofferenza, in particolare per coloro che vivono nelle condizioni più difficili nei paesi più poveri del mondo”.
Dare priorità al miglioramento della qualità della vita, però, non significa abbondonare la decarbonizzazione dove Gates continua ad investire così come fanno buona parte delle nazioni più importanti.
I numeri ci dicono che la diffusione globale delle rinnovabili è ancora in accelerazione e gli investimenti sono raddoppiati negli ultimi cinque anni. Ma la politica climatica è innegabilmente in ritirata e, lungi dall’inaugurare una nuova era di solidarietà globale cooperativa, Parigi ha lasciato il posto a un’era di competizione e rivalità basata sulla logica dell’interesse nazionale.

Cosa è cambiato? Si direbbe tutto tranne la scienza, che ha continuato a dare cupi avvertimenti sulla velocità e sulle conseguenze dell’aumento della temperatura anche se il panico climatico è passato in secondo piano rispetto alla pandemia che non solo ha cancellato le conferenze sul clima e interrotto il lancio dell’energia verde, ma è sembrata anche minare lo spirito di solidarietà globale che stava alla base del progetto più ampio. La protesta per il clima è quasi scomparsa e, quando è tornata, qualche anno dopo, i numeri erano molto più piccoli e l’accoglienza molto più fredda.
A livello globale, la preoccupazione per il riscaldamento è ancora in aumento, ma solo lentamente – e mentre la grande maggioranza delle persone in molti paesi afferma di sostenere una decarbonizzazione più rapida, altri sondaggi mostrano che gli elettori in realtà non danno priorità alla decarbonizzazione e, soprattutto, non sono disposti a pagare molto per realizzarla.
Eppure, ci sono buone notizie. Anche se i leader globali parlano meno dei rischi del riscaldamento e della necessità di limitarlo, la decarbonizzazione sta comunque avanzando. “Non si tratta più di politica climatica”, afferma Christiana Figueres, ex capo della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici e uno degli artefici di Parigi. “Si tratta di economia climatica”.
Nel 2024, tristemente noto per avere superato la soglia di 1,5° di aumento della temperatura media a livello mondiale, le energie rinnovabili hanno fornito oltre il 40% dell’elettricità mondiale raccogliendo investimenti doppi rispetto ai combustibili fossili. Il 93% della nuova energia a livello mondiale proviene da fonti pulite, il che significa che per ogni nuova unità di capacità sporca messa in funzione nel 2024, c’erano 24 unità di energia pulita. Ciò non è ancora sufficiente per abbassare le emissioni globali ma testimonia una importante svolta. Si stima che già l’anno prossimo le energie rinnovabili diventeranno la principale fonte di elettricità al mondo.

Mentre gli Stati Uniti si sono mossi più lentamente nel campo della tecnologia verde, la Cina ha fatto irruzione. In effetti, è fuori di dubbio che il più grande sviluppo nella geopolitica climatica dai tempi di Parigi sia la sorprendente ascesa della Cina come superpotenza dell’energia verde nel mezzo di quello che sembrava, all’inizio del periodo, come un futuro globale ancora dominato dagli indispensabili Stati Uniti.
Il 74% di tutti i progetti solari ed eolici globali vengono ora costruiti in Cina o da aziende cinesi, e nei 12 mesi terminati a giugno, la Cina ha installato più energia solare all’interno dei suoi confini di quanta l’America ne abbia mai prodotta. Finora, quest’anno, la Cina ha installato il doppio della quantità di energia solare rispetto al resto del mondo messo insieme, e il controllo del Paese sulla catena di approvvigionamento verde mondiale è un fatto incontestabile. In altre parole la Cina ha trasformato il problema climatico in una grande opportunità di crescita.