Quali sfide attendono la società di domani? Quali sono i rischi e quali le possibilità offerte dallo sviluppo tecnologico? Per la rubrica “Futuro da sfogliare” un estratto del libro Disordine di Giuliano Noci, edito da Il Sole 24 Ore.
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La globalizzazione, celebrata come panacea per la prosperità mondiale, ha indubbiamente generato crescita economica e sollevato intere nazioni dalla povertà. Miliardi di persone sono usciti dalla condizione di povertà, si è registrata una crescita economica senza precedenti e le aspettative di vita sono cresciute quasi esponenzialmente.
Nel cosiddetto mondo occidentale le borse hanno raggiunto i propri massimi e i livelli di occupazione sono in media migliorati a livello macro. Tuttavia, dietro questa facciata scintillante, si cela una realtà meno positiva: mentre alcuni si arricchiscono smisuratamente, vasti segmenti della popolazione globale rimangono esclusi dai benefici promessi. La classe media è venuta sostanzialmente meno in molti luoghi del mondo. I neoliberisti hanno propagandato la liberalizzazione del commercio internazionale come garante di pace e prosperità universale, immaginando una società regolata dalla supremazia del mercato.
Eppure, dalla caduta del Muro di Berlino, sebbene miliardi di persone in Cina, India, Sud America e Africa sub-sahariana abbiano migliorato le proprie condizioni, la distribuzione della ricchezza, come abbiamo già detto nei capitoli precedenti, è diventata sempre più iniqua. L’1% più ricco della popolazione mondiale detiene il 43% di tutte le attività finanziarie globali, lasciando il restante 99% a spartirsi le briciole.

In Italia, questa disparità è ancora più accentuata: nel 2022, l’1% più ricco possedeva una ricchezza 84 volte superiore a quella del 20% più povero. Fondamentalmente sebbene la crescita totale sia stata positiva in termini netti, è comunque fortemente squilibrata. Il divario che si è venuto a creare tra fasce della popolazione risulta sempre più forte, rendendo i grandi ricchi sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. Il coefficiente di Gini misura della disuguaglianza nella distribuzione del reddito, rivela che in Italia nel 2018 si attestava a 0,3432, posizionando il Paese tra quelli con maggiori disuguaglianze in Europa.
Questa “turbo-globalizzazione”, scatenata dopo la Guerra Fredda e caratterizzata da una libera circolazione dei capitali senza precedenti, ha certamente favorito la convergenza economica tra nazioni ricche e povere. Tuttavia, ha anche alimentato squilibri interni ed esterni, concentrando la ricchezza nelle mani di pochi e lasciando molti a lottare per una fetta sempre più piccola del benessere globale. È tempo di smascherare l’illusione che la globalizzazione, così come è stata concepita, porti beneficio a tutti. Senza interventi mirati e regole condivise efficaci, continueremo a vivere in un mondo dove (troppo) pochi prosperano e molti rimangono indietro. Se infatti la turbo-globalizzazione è causa (positiva) del percorso di convergenza economica tra Paesi ricchi e Paesi poveri e di crescita economica globale, essa rappresenta anche la determinante chiave (negativa) alla base degli enormi squilibri che si sono creati su scala nazionale e internazionale negli ultimi decenni.
I veri fattori dello squilibrio globale
Per anni ci siamo raccontati la favola di un ordine economico mondiale capace di autoregolarsi, di mercati in grado di creare ricchezza per tutti e di una finanza globale che, nella sua anarchia, avrebbe generato prosperità diffusa. Oggi i nodi sono venuti al pettine: il mondo non è mai stato così squilibrato, e i suoi fondamenti economici si reggono su meccanismi predatori, bolle speculative e l’illusione di un’America ancora capace di dettare le regole. Mi riferisco a:
Commercio senza regole: la guerra dei deficit. Chi ha detto che il commercio globale è una partita equa? La condizione di libero scambio delle merci ha permesso ad alcuni Paesi, come Cina, Corea del Sud e Germania, di ottenere enormi surplus commerciali grazie alla possibilità di esportare l’eccesso di produzione in virtù di una politica di contenimento dei salari finalizzata a sostenere la competitività dell’industria manifatturiera nazionale. Di converso, i partner commerciali di questi ultimi – ovvero Paesi che vantano un deficit commerciale come gli USA (domanda e offerta si devono bilanciare a livello globale) – hanno dovuto ridurre la propria vocazione manifatturiera per lasciar spazio alla domanda (di beni importati). In entrambi i casi, le disparità conseguenti sono evidenti: nei Paesi in surplus, i consumatori sussidiano le imprese con i loro bassi redditi e pertanto non hanno un potere di acquisto coerente con gli standard auspicabili per una classe media; in quelli caratterizzati da un deficit commerciale, la chiusura di insediamenti industriali innesca perdite di posti di lavoro nei colletti blu causando forti tensioni sociali: si calcola che negli USA vi sia stato negli ultimi 40 anni un deflusso di reddito dalla manifattura di oltre 40.000 miliardi di dollari. Questi squilibri commerciali hanno inoltre innescato una situazione speculare sul fronte degli investimenti e del risparmio, che come noto si devono bilanciare a livello globale; in particolare, quando un’economia adotta politiche che creano uno squilibrio interno tra i due, questo costringe il resto del mondo a adeguarsi creando uno squilibrio opposto. Per essere più specifici, i Paesi contraddistinti da un surplus commerciale costringono il risparmio a superare gli investimenti; fintanto che un Paese ha libero accesso ai mercati finanziari e dei capitali esteri, il Paese verso cui indirizza il proprio eccesso di risparmio deve accettare cambiamenti strutturali che riducono il risparmio interno innescando così una situazione in cui lo squilibrio tra risparmio e investimenti in quest’ultimo Paese è determinato dallo squilibrio creato nel primo. Si è creata una situazione per cui, in termini aggregati, ci sono troppi beni e servizi che inseguono un potere d’acquisto insufficiente. Questo squilibrio ha portato a livelli elevati di debito privato, poiché il 99% prende in prestito denaro per l’abitazione, la sanità e il cibo, mentre le aziende (che non riescono a vendere tutto ciò che producono) contraggono debiti per compensare il calo delle vendite. Non è un caso che gli Stati Uniti abbiano scatenato guerre commerciali a colpi di dazi: i deficit commerciali non sono solo un problema contabile, ma il riflesso di una distorsione strutturale che vede alcuni Paesi (la Cina in primis) accaparrarsi ricchezza drenandola da altri. Il mercato libero? Solo una cortina fumogena per mascherare comportamenti predatori.

La finanza selvaggia e la bolla monetaria globale: la libera circolazione dei capitali e sistemi monetari senza regole hanno creato un’enorme bolla finanziaria. Nel sistema monetario post Seconda guerra mondiale (quello di Bretton Woods) le riserve di valuta estera delle Banche centrali tendevano ad aumentare lentamente, essendo vincolate all’oro. Nel nostro non-sistema (affermatosi con la decisione di abbandonare il gold standard) l’aumento delle riserve non ha limiti: più è grande l’attivo con l’estero della Cina e di altre economie che controllano il loro tasso di cambio, maggiori sono le loro riserve. È importante sottolineare che questo sistema è reso possibile dalla libera circolazione dei capitali. Dunque, gli attivi in conto capitale possono concorrere ad accelerare l’accumulo di riserve estere. Dalla svalutazione del renminbi (la valuta cinese) nel 1994 al secondo trimestre del 2014, il totale mondiale delle riserve di valuta estera è passato da mille a 12mila miliardi di dollari. Nessun sistema monetario internazionale negoziato tra Paesi avrebbe mai permesso un exploit simile. Gli architetti di Bretton Woods sbalordirebbero e sarebbero anche sorpresi del fatto che non si sia creata inflazione, dato il ritmo d’accumulo di riserve presso gli istituti commerciali dei Paesi le cui Banche centrali hanno fatto incetta di valuta estera.
– Il tramonto dell’egemonia americana e il caos geopolitico: non esiste un soggetto ordinatore capace di dettar legge alla realtà. Esistono fatti ed eventi che si moltiplicano su scala globale e che instaurano tra loro relazioni conflittuali dagli esiti imprevedibili. I diversi attori geopolitici, che non accettano più di diluirsi nell’American way of life o nel cosiddetto ordine internazionale basato sulle regole, agiscono come punti d’instabilità, ovvero come incognite in grado di produrre eventi senza che nessuno sia capace di contestarli o prevederli. Oggi non è più così. Nessuno è in grado di rappresentare il mondo e di imporre alla realtà le proprie leggi. Le sorti del mondo dipendono ancora dal futuro dell’America, ma le sorti dell’America dipendono come non mai dal suo rapporto col mondo. Chiamatela, se volete, correlazione quantistica con caratteristiche geopolitiche. Il paradosso dell’attuale fase storica potrebbe essere espresso in questi termini: Washington, pur essendo la principale potenza del Pianeta, deve fare i conti con il fatto di essere nel mondo senza poterlo rappresentare nella sua totalità. Viviamo un’epoca in cui gli squilibri non sono incidenti di percorso, ma la struttura stessa del sistema. Senza una riscrittura delle regole, la globalizzazione continuerà a essere una lotteria truccata, la finanza un castello di carte e la geopolitica un’arena in cui nessuno è davvero in grado di governare il caos. Il problema? Quando le regole non vengono riscritte, lo fanno gli eventi, e la Storia ci insegna che il prezzo da pagare è sempre altissimo. La non accettazione degli USA è anche un inevitabile sottoprodotto dell’egemonia culturale statunitense “nata” dalla fine della Seconda guerra mondiale, soprattutto per quanto riguarda i Paesi europei-occidentali che vi sono stati inglobati. Rimaniamo in una fase di stallo. Da un lato, la cultura statunitense è stata popolarizzata a livelli mai visti prima: anche grazie alla nascita di Internet, l’inglese si è stabilito come essenziale lingua franca e il soft power statunitense è salito a livelli inimmaginabili rispetto a una grande potenza del passato. Dall’altro lato si è giunti, attraverso crisi fondanti (dal 2001 alla crisi finanziaria, all’amministrazione Trump) a un rigetto dell’inevitabilità delle norme culturali americane. Questo rigetto è intrinsecamente legato a un processo di globalizzazione via via più profondo, che paradossalmente porta a una sempre maggiore importanza della cultura locale come opposizione alla cultura egemonica. Un processo simile, su scala molto più ridotta e specifica, potrebbe essere rivisto anche nel concetto di Hallyu o Korean Wave, il successo della cultura di massa sudcoreana dalla fine degli anni ’90. Questo fenomeno è rappresentativo, perché identifica quanto Internet abbia cambiato la società e il concetto di soft power. Allo stesso tempo, la Korean Wave non manca di attirare grandi critiche, soprattutto in Paesi geograficamente vicini alla Corea ma distanti culturalmente come Cina e Giappone, che non hanno mancato di sentirsi minacciati da questo risorgimento.
Sovranismo vs globalizzazione: il duello che non possiamo più permetterci
Se c’è una certezza nel mondo contemporaneo è questa: la globalizzazione è inevitabile. Ma con essa arrivano anche i suoi figli ribelli: il sovranismo, il protezionismo, il nazionalismo. Uno scenario paradossale, in cui proprio coloro che hanno beneficiato della globalizzazione si ribellano a essa. Dal Midwest americano alle periferie industriali europee, fino ai Paesi emergenti del Global South: il vento del risentimento soffia forte. Gli Stati Uniti hanno sperimentato la loro crisi interna: disuguaglianze sempre più marcate, classe media sotto pressione, perdita di posti di lavoro tradizionali. Ma la reazione non è stata un adattamento, bensì un ripiegamento su sé stessi. Da Trump a Biden, con diverse sfumature, il messaggio rimane chiaro: meno dipendenza dall’estero, più produzione domestica. L’Europa, da parte sua, ha visto crescere movimenti sovranisti che si oppongono alla cessione di sovranità all’UE e temono l’integrazione incontrollata. Ma il vero cortocircuito si manifesta nel Global South: nonostante la crescita economica alimentata dal libero scambio, questi Paesi vedono minacciata la loro sovranità da multinazionali e istituzioni finanziarie internazionali che dettano le regole. Il risultato? Paradossalmente, una reazione protezionista proprio da parte di chi dalla globalizzazione ha tratto vantaggi.
Nel già citato rapporto Oxfam del 2024, “Inequality Inc.”, evidenzia come la concentrazione di ricchezza nelle mani di pochi continui a crescere esponenzialmente, mentre la promessa di un benessere diffuso rimane un miraggio. In parallelo, la polarizzazione politica si intensifica: la globalizzazione sta creando una nuova frattura politica, una spaccatura sempre più ampia tra “vincitori” e “perdenti” della modernità economica, come evidenziato dalle teorie di Stein Rokkan. Il vecchio asse destra-sinistra non basta più a spiegare le dinamiche elettorali: ora lo scontro principale è tra chi difende l’integrazione globale e chi la combatte per un ritorno a politiche più nazionaliste. Ma globalizzazione e sovranismo sono davvero inconciliabili? O siamo semplicemente bloccati in una narrativa pigra e semplicistica?
La soluzione non è chiudersi dietro barriere doganali o dissolvere la sovranità nazionale in un mercato senza regole. Serve una nuova sintesi, una modernità geopolitica che superi le logiche del passato. E qui torna il bisogno di un nuovo “momento Bretton Woods”, un’architettura globale in grado di equilibrare libero scambio e protezione sociale. Una governance multilaterale che non sia solo un club per vecchie potenze occidentali, ma che includa attori come la Cina, l’India e l’Africa emergente, evitando squilibri strutturali che alimentano il malcontento. In questo scenario, occorre un cambio di paradigma: non più la massimizzazione della ricchezza globale come fine ultimo, ma un modello che tenga conto dell’occupazione, della produzione e della stabilità sociale nei vari Paesi. Keynes lo aveva già intuito quasi un secolo fa: la crescita economica deve servire la società, non il contrario. Oggi, di fronte alla crescente disaffezione verso le istituzioni globali, è il momento di riscrivere le regole del gioco. Perché se globalizzazione e sovranismo continueranno a combattersi in una guerra di trincea, l’unico vero perdente sarà il futuro.