Se Walter è considerato il big boss di casa Burani, il figlio Giovanni è un genio della finanza. Siamo nel 2006. Il 12 dicembre Giovanni riceve a Torino il premio Confindustria Awards for Excellence, riconoscimento assegnato alle imprese eccellenti del Made in Italy nel mondo. A consegnare il premio Luca Cordero di Montezemolo che definisce le finaliste «una vetrina di campioni capaci di crescere e competere…. Ma per innovare che vuol dire rischio ed investimento serve anche la vicinanza di una finanza lungimirante e coraggiosa». Parole chiave da ricordare: finanza lungimirante e coraggiosa.

Alla domanda che un giornalista gli pone «Com’è possibile una performance di questo genere in un periodo difficile per tutto il mondo industrializzato?», Giovanni senza esitazione alcuna risponde. «Ci siamo focalizzati sul lusso accessibile e nelle diversificazioni. Andiamo su settori ad alti tassi di crescita e alto valore aggiunto». Il management infatti aveva scelto di focalizzarsi su pelletteria e gioielleria in quanto settori che offrivano maggiore marginalità e più ampie potenzialità di crescita. La pelletteria è, infatti, anticiclica a differenza dell’abbigliamento; il suo prodotto ha una durata maggiore in termini fisici ma anche simbolici e ha un costo unitario più basso.
Giovanni si occupa delle acquisizioni del gruppo. Gli interessi spaziano dalla moda all’ambiente, dagli immobili alle banche e al benessere. Tante, forse troppe, da sollevare qualche legittimo dubbio. Un analista economico gli domanda se la famiglia Burani non si stia distraendo dalla moda. «Noi acquisiamo solo società che abbiano break even point facilmente raggiungibili, che siano flessibili in termini di strutture, che continuino a essere profittevoli anche in caso di una riduzione del fatturato». Anche la politica di espansione geografica è sviluppata, prosegue l’AD, secondo logiche di bassa rischiosità: si preferiscono i mercati meno volatili. Fra gli acquisition criteria del gruppo sembra esserci quello della prudenza. «Noi non abbiamo mai pagato cifre folli e vogliamo preservare la nostra struttura finanziaria equilibrata. Noi dobbiamo volare basso. Dobbiamo stare con i piedi per terra». Una dichiarazione che a posteriori risulta profetica e suona come un monito non ascoltato.

Il 13 novembre del 2007, Giovanni partecipa alla tavola rotonda Gli scenari futuri della moda e del lusso, moderata dal giornalista Enrico Mentana. Giovanni racconta come il fatturato sia ancora cresciuto nel 2007 del 12%, oltrepassando i 700 milioni di euro di ricavi, solo per la maison di Mariella Burani. Il Gruppo vola oltre il miliardo di euro, compresi i marchi Antichi Pellettieri, Greenvision e Bioera. «Sono convinto che per i prossimi 5 anni i mercati ci daranno ragione, soprattutto quelli emergenti. Per il 2008 puntiamo a raddoppiare i mercati di Cina e India». Propositivo, sicuro, ambizioso e ottimista sono alcuni degli aggettivi che ci restituiscono le parole che Giovanni rilascia in quegli anni di crescita straordinari e che disegnano i tratti di un leader audace e visionario.
Quando ambizione e ottimismo non bastano
Leggendo gli articoli dell’epoca, è possibile tratteggiare alcune caratteristiche del figlio di Mariella Burani. Giovanni, come sua madre ama il movimento pur restando con i piedi ben «piantati a terra». Ottimista e stacanovista. È un collezionista di auto d’epoca e uno sportivo. Appassionato di Triathlon, si allena nella palestra comunale. Giovanni è il ritratto della madre. Cresciuto tra ritagli di stoffa, schizzi creativi e sogni cuciti su due valori: la cultura del lavoro e la famiglia.
Laureato in economica e commercio, entra da subito nell’azienda di famiglia, insieme al fratello Andrea. Sono gli anni ’90. «Dà soldi a tutti e aiuta chi può», afferma la madre. Non mancano infatti interventi di solidarietà tra arte e spettacolo.
Giovanni sembra avere una dote che lo differenzia dagli altri: l’intuito per i numeri. Nel 2001, quando tutti i titoli della moda perdevano circa il 14%, afferma con un certo orgoglio: «abbiamo chiuso l’annata borsistica con un rialzo del 3%, una performance migliore del Mibtel e del Mib 30». Il segreto del gruppo secondo la famiglia è la famiglia stessa, che è stata in grado di far crescere il gruppo «con intelligenza e senza farsi prendere la mano».

Nel 2008 Giovanni siede in ben 43 consigli di amministrazione. Un successo senza sosta che raggiunge il suo apice con un importante riconoscimento. Il novembre 2008, nella veste di AD di Mariella Burani Fashion Group, Giovanni riceve il premio Ernest & Young per la categoria Finance «per aver fatto un uso strategico e raffinato della leva finanziaria». Lette a posteriori le motivazioni risuonano con una tragica ironia.
Un premio accompagnato da una ventata di euforia e ottimismo per l’outperformance della società. Goldman Sachs si spinge ad affermare che le quotazioni di Mariella Burani erano addirittura sottovalutate alla luce «della prospettive di crescita del gruppo e di un ulteriore consolidamento del comparto della gioielleria». La banca di investimenti Cazenove vede nel proseguimento della politica di acquisizioni nella gioielleria e nel segmento della pelletteria due fattori in grado di dare nuovo impulso ai titoli.
L’anno dopo, 2009, Giovanni si dimette da AD. Nel 2010 Burani Designer Holding, Mariella Burani Fashion Group e Mariella Burani Family Holding sono inspiegabilmente sull’orlo del baratro. Nello stesso anno viene nominato un curatore fallimentare. La crisi del gruppo viene quantificata inizialmente in 65,6 milioni di euro di patrimonio netto. I dipendenti finiscono in cassa integrazione. Appena 3 anni dopo Walter, 80 anni, e suo figlio Giovanni, 49 sono condannati per bancarotta fraudolenta aggravata. Sei anni di reclusione più un risarcimento complessivo di circa 13 milioni di euro a favore di tre società coinvolte nel crac e due fondi. Il confine tra successo e fallimento è estremamente sottile. Sono gli stessi fattori di forza che permettono di conquistare il podio a trasformarsi, talvolta, in fattori determinanti per l’insuccesso.

Troppo grandi per avere successo?
Imprevedibile, inimmaginabile, inattesa sono gli aggettivi che i giornalisti scelgono per comunicare la notizia della crisi. Stessi aggettivi usati dai dipendenti, dai sindacati e dai concittadini dei Burani. Perfino la stilista dichiarerà che per lei la vicenda «è un fulmine a ciel sereno». È lecito domandarsi se tali aggettivi siano appropriati quando si deve narrare la crisi che li ha travolti.
Analizzando la rassegna stampa dagli anni ’90 ad oggi si ha la sensazione di leggere una storia con un prima e un dopo a cui manca un durante. Fino al settembre 2009 gli articoli dedicati all’azienda di Cavriago sono lusinghieri per i risultati ottenuti in termini di fatturato, ricavi, marginalità. «Burani fabbrica margini». «Mariella Burani fashion group rappresenta una delle realtà più dinamiche del panorama del settore del lusso».«Burani in cima alla top ten della crescita». Ancora, «ci troviamo di fronte a un fenomeno straordinariamente positivo, ma molto raro». I fondamentali della società sono sempre stati caratterizzati, a leggere i documenti, da performance reddituali eccellenti anche nei momenti di flessione che ha interessato il settore moda.
Titoli entusiasti fino al momento in cui è convocata l’assemblea Ordinaria e Straordinaria di Mariella Burani Fashion Group S.p.A. con l’obiettivo di appianare le perdite di 83,5 milioni. Siamo nel settembre del 2009. I titoli dei giornali cambiano di tono. «Mariella Burani al capolinea». «I Burani e i loro comparielli». «Il crollo di Mariella Burani». «Risultati Mariella Burani: anche i ricchi piangono la crisi». «Sul made in Italy soffia la crisi».
Secondo i giornalisti S. Campani e P. Pergolizzi, un solo articolo dal titolo Pasticcio Burani getterà qualche ombra sui numeri della società di Cavriago. L’articolo pubblicato nel luglio del 2008 evidenziava alcune delle incongruità che saranno portate alla luce nella semestrale del 2009.
Per il resto, nulla. Eppure i dati entusiastici pubblicati già nel 2006, tali da elevare la società a campione di incassi nel settore moda made in Italy, nascondevano un margine operativo lordo e un utile operativo deludenti. Quei numeri, ad occhio attento, raccontavano il tentativo di superare difficoltà industriali e finanziarie. Segnali deboli, latenti ma presenti già nei documenti del 2005 che non sono stati colti e che sono sfociati nel 2009 in una crisi irrimediabile.
Anatomia di un crac
«Come si spiega una crisi così profonda del vostro gruppo?», chiede il giornalista alla stilista. «Le dico solo che la moda non dà profitto. È come uno specchietto per le allodole. Non sono più i tempi in cui ho cominciato. Tutti hanno problemi, anche Versace e Cavalli. Se non ci fossero state tutte queste operazioni finanziarie». È negli anni ’90 che inizia lo shopping della famiglia con l’acquisizione di aziende italiane ed estere. Un gruppo industriale in forte espansione e in piena diversificazione: dall’abbigliamento ai gioielli, dai prodotti in pelle alle borse, al benessere.
Nel 1999 nasce Mariella Burani Fashion Group, con la transizione dalla forma giuridica di società di persone a SpA. E con l’avvio di una strategia di tendenziale crescita dimensionale attraverso l’acquisizioni di un insieme di marchi, esperienze e conoscenze, da affiancare al marchio storico preservando, sottolinea Giovanni, «l’individualismo delle aziende, una caratteristica spesso vincente».
La famiglia entra nel settore degli accessori e dell’abbigliamento di pelle tramite la costituzione della sub-holding Antichi Pellettieri SpA e poi nell’oreficeria. La finalità, per i Burani, è quella di sviluppare un processo di apprendimento dalle esperienze passate al fine di ripetere i modelli e i percorsi che hanno portato ad acquisizioni di successo.
La voglia di shopping di Mariella Burani, per riprendere un articolo di Milano Finanza del 2002, poteva essere letta in una chiave meno entusiasta e più dubitativa. Molto spesso le acquisizioni di questo tipo avvengono quando l’azienda ha difficoltà di crescita interna. Le acquisizioni, non sempre trasparenti sotto il profilo economico-finanziario e giuridico e non sempre vantaggiose, consentono all’impresa di guadagnare molto in tempi brevi e al vertice di assecondare la propria ambizione. A lungo termine però, il costo si innalza drasticamente, impattando negativamente su tre fronti critici: la liquidità disponibile, la complessità della gestione operativa e la dispersione del focus sull’attività principale.

L’inizio del declino, secondo alcuni analisti, coincide anche con l’entrata in Borsa. Siamo nel luglio 2000, le azioni vengono vendute a 7 euro l’una. Seguono altre 5 quotazioni nell’arco di 7 anni. Da questo momento il Gruppo attiva rilevanti cambiamenti strategici e organizzativi. Nel luglio 2007 le azioni arrivano a valere 27,19 euro l’una. Il 28 agosto 2009 vengono scambiate a 2,522 euro l’una. Il 31 agosto la Borsa italiana comunica che «le azioni ordinarie Mariella Burani F. G. sono sospese dalle negoziazioni a tempo indeterminato».
Le imprese in crisi fanno molto spesso ricorso al mercato finanziario. Nel breve periodo si possono ottenere risultati strabilianti ricorrendo alla leva finanziaria, quella grazie alla quale Giovanni ottiene anche un Premio. L’overperformance raccontata attraverso comunicati e articoli di giornali attrae l’interesse di investitori ed esperti che vengono in questo modo rassicurati sull’andamento del gruppo. In questo senso potremmo rileggere le parole di Giovanni pronunciate nel periodo della crisi del tessile: «Non è un momento facile. Ma bisogna cercare di infondere maggior ottimismo e in questo credo che i media abbiano un ruolo fondamentale per il nostro Paese. È essenziale per far ripartire il Paese».
Le operazioni finanziarie, alcune delle quali saranno definite «farlocche», consentivano al gruppo di apparire più solido. I bilanci venivano gonfiati per aumentare anche il valore delle azioni. Nel 2008 Mariella Burani Family Holding lancia un’Opa sulla controllata Mariella Burani Fashion Group (quotata in Borsa). I numeri erano sovradimensionati allo scopo di lanciare l’Opa a 17,50 euro per azione. Il consulente dei pm dichiarerà che «il prezzo dell’Opa non avrebbe dovuto superare i 7,95 euro». Mariella Burani dichiarerà che «questa Opa non andava fatta. Non ha rovinato gli altri, ma solo noi stessi».
Secondo il professore Alessandro Zattoni, esperto di Corporate Governance, c’è un altro fattore che può spiegare la crisi. «Le aziende che crollano sotto gli effetti di crisi finanziarie improvvise sono solitamente gestite da azionisti di controllo o da top manager intenti a soddisfare le loro grandi ambizioni personali attraverso la crescita aziendale: accentrano le decisioni aziendali, si circondano di collaboratori fidati e fedeli. Sono percepiti come infallibili. La loro reputazione e il loro carisma sono amplificate dalle performance aziendali e dai giudizi positivi espressi dalla stampa e dalla comunità finanziaria. Solo successivamente si evidenzia che erano spregiudicati nell’inseguire il successo».
Il pm Orsi, nella sua ricostruzione della vicenda, ha definito la gestione del gruppo «una vera e propria antologia di come non bisogna fare impresa». Ripercorrendo la storia del gruppo emerge chiaramente come la combinazione di ardite operazioni finanziarie, bulimia d’acquisizione e ottimismo irrealistico hanno determinato il fallimento del gruppo. «Se ti fermi è finita. Devi pensare subito alla prossima meta», sono le parole di Giovanni Burani nei giorni buoni dell’impresa.
Dopo il crac della maison Burani, la stilista è tornata sulle passerelle di Milano col suo cognome da ragazza, Arduini. «Io mi chiamo Arduini e raccomando sempre alle giovani donne che lavorano con me di mantenere la propria indipendenza. La mia creatività non me la toglie nessuno. Nella vita ci vuole tanto coraggio, qualcuno che ti vuole bene e ti stima e un pizzico di fortuna».
La fortuna non è casuale: il successo è fondato su un atteggiamento umile e da un solido senso etico, guidato dal talento e supportato dalla capacità di accogliere le opportunità, anche quelle impreviste.
Le 3 regole d’oro
Mantenere il focus. La crescita non può essere sostenuta dall’aumento di un portafoglio troppo complesso da gestire. Il rischio è di disperdere l’attenzione dal core business. La dispersione del focus costa più di quanto renda.
Essere realisti. Una dose di ottimismo eccessiva si rivela disfunzionale e controproducente, portando a ignorare la realtà oggettiva e a prendere decisioni avventate e ad alto rischio.
Essere umili. La mancanza di umiltà può portare a ignorare i warning signs, a sovradimensionare i numeri e a perseguire obiettivi ambiziosi ma irrealistici.