Hai mai notato quanto sia facile incolpare lo smartphone, le piattaforme e l’intelligenza artificiale per le nostre dipendenze digitali? Siamo tutti lì — con le notifiche, i reel infiniti, i chatbot che ci risolvono la giornata — e, appena qualcosa va storto, la colpa è sempre di qualcun altro. Aziende troppo furbe, algoritmi troppo potenti, AI che ci ruba la professione e perfino la memoria.
Ma bastano pochi esempi reali per capire che la questione è ben diversa. Prendiamo la cosiddetta “truffa” delle merendine e l’epidemia di obesità: il vero scandalo non è che le industrie ci “tentano”, ma che hanno reso le calorie spazzatura più economiche di quelle nutrienti. Un chilo di patatine costa meno di un chilo di mele. Una famiglia con budget limitato può nutrire quattro persone con dieci euro di cibi ultra-processati, ma non con dieci euro di verdure fresche e proteine di qualità.

Negli anni Cinquanta cucinare richiedeva più tempo, sì, ma anche i salari permettevano che una persona si dedicasse alla casa mentre l’altra lavorava. Oggi, con due genitori che fanno turni per arrivare a fine mese, quando trovi il tempo per passare ore in cucina? E soprattutto, con quali soldi compri ingredienti freschi che costano il doppio di quelli confezionati e durano la metà? L’industria alimentare non ha solo “risposto alla domanda di comodità” — ha creato un sistema dove mangiare male è sistematicamente più conveniente che mangiare bene, sia in termini di tempo che di denaro.
Il risultato è che l’obesità colpisce soprattutto le classi più povere, proprio quelle che hanno meno scelta. Non è una questione di “disciplina” o di “saper resistere alle tentazioni”: è una questione di sopravvivenza economica. Quando devi scegliere tra saziare i tuoi figli con quello che puoi permetterti o lasciarli affamati per principio, la scelta è ovvia.
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Allo stesso modo, oggi possiamo scaricare un modello AI sul nostro PC e fargli scrivere codice, testi, perfino deepfake incredibili — e non servono quasi più sviluppatori con anni di formazione alle spalle. È sempre colpa della tecnologia? O forse è colpa nostra se stiamo disimparando a fare fatica, e non vogliamo nemmeno più accorgercene?
La storia dietro AI e stoicismo parte da qui: dal nostro rapporto con lo sforzo e dalla tentazione irresistibile di delegare tutto. E riguarda chiunque voglia ancora decidere della propria vita, professione inclusa.
Il meccanismo della delega
Come siamo arrivati a farci risolvere ogni cosa dalla tecnologia? Una spinta fortissima viene dalla comodità, certo. Il mercato — e le grandi piattaforme — sanno benissimo che, se ti offrono una scorciatoia, la prendi. Ma attenzione: non è complotto, è la logica della domanda e dell’offerta. Chiunque abbia più di quarant’anni ricorda a memoria dieci numeri di telefono; adesso, se ti rubano il cellulare, ti senti completamente perso. Non siamo diventati improvvisamente stupidi: abbiamo solo scelto la scorciatoia più comoda, mettendo fuori dal cervello tutto quello che può essere “automatizzato”.
L’AI è semplicemente il prossimo livello di questa storia. Chiedi a ChatGPT di scrivere codice? Lui lo fa, senza problemi. Peccato che a volte inventi librerie che non esistono: chi se ne accorge? Quasi nessuno — finché qualcuno, per errore, installa un malware mascherato da biblioteca finta. È quello che nel settore chiamano “slop squatting”: l’AI suggerisce una libreria inesistente con un nome plausibile, gli sviluppatori cercano di installarla fidandosi ciecamente, e i cybercriminali creano pacchetti falsi con quei nomi, pieni di codice malevolo. Il risultato sono sistemi compromessi perché qualcuno ha delegato anche la verifica all’intelligenza artificiale.
Ma il problema non è la tecnologia: è l’illusione che, con meno fatica, si riesca a ottenere lo stesso risultato. Però attenzione: con l’AI la dinamica è diversa da quella del cibo spazzatura. Nel caso dell’obesità, spesso non c’è vera scelta — è il sistema economico che rende le calorie cattive più accessibili. Con l’AI invece la scelta c’è ancora, almeno per ora. Possiamo decidere se verificare quello che produce, se mantenere le nostre competenze, se assumerci la responsabilità finale. Il rischio è che, come è successo con il cibo, anche qui si crei un sistema dove delegare tutto diventa l’unica opzione economicamente sostenibile.
Verso la dipendenza cognitiva
Il futuro va verso una delega massiccia di sforzi cognitivi e decisionali alle macchine, e questo ha conseguenze che vanno ben oltre la perdita di memoria o competenze specifiche. Perdiamo anche la capacità di capire quando l’AI sbaglia o inventa, creando quello che potremmo chiamare “analfabetismo tecnologico di ritorno”. Sviluppatori che si affidano ad agenti generativi per un coding “vibrazionale” — cioè a tentoni, senza davvero comprendere cosa succede — si moltiplicano ogni giorno. Professionisti che pubblicano testi generati dall’AI senza nemmeno leggerli. Manager che prendono decisioni strategiche basate su analisi di cui non capiscono i limiti.
Se qualcosa va storto — un deepfake troppo realistico, una libreria compromessa, un testo completamente allucinato — è automatico puntare il dito contro il tool, dimenticando che la verifica, alla fine, restava sempre nostra responsabilità. Le aziende, sempre affamate di tagliare costi e personale, sono tentate di automatizzare tutto ciò che si può, ma questo ha un effetto collaterale pericoloso: cresce la dipendenza dall’AI e si riduce il controllo umano sui processi, aprendo la strada a vulnerabilità enormi.
Nel migliore dei casi, si crea apatia generalizzata — “non mi interessa se l’informazione è vera, mi basta che funzioni”. Nel peggiore, si spalancano le porte a disastri di ogni tipo, fra errori sistemici e manipolazioni su larga scala. E la scusa sarà sempre pronta: “è colpa dell’algoritmo”. Ma chi ci crede più, davvero?
Riprendersi la responsabilità
Il punto è smettere di aspettarsi che la tecnologia risolva tutto senza sforzo da parte nostra. Serve riabituarsi a “fare fatica”, come insegnerebbero gli stoici. Manager, imprenditori e professionisti devono tornare a considerare la competenza come qualcosa che si allena — esattamente come si fa con i muscoli. Questo vuol dire non affidare le decisioni chiave solo all’AI, ma porsi, ogni volta, la domanda fondamentale: ho capito davvero cosa succede dietro? Ho ancora la capacità di verificare?
Per le aziende, la tentazione del risparmio immediato va bilanciata con la consapevolezza che la responsabilità non si esternalizza mai completamente: se tagli l’ultimo livello di controllo umano, accetti implicitamente che l’errore finale non sia dell’AI, ma tuo. Per chi lavora — junior o senior che sia — la lezione è altrettanto chiara: non delegare tutto e non credere a chi dice that “basta chiedere gentilmente alla macchina”. Lavorare davvero con l’AI richiede più fatica di prima, non meno: imparare, controllare, dubitare, correggersi continuamente.
Serve stoicismo, non solo strumenti sempre più sofisticati. E chi lo comprende oggi, domani sarà ancora davvero utile nel proprio lavoro… e molto più difficile da sostituire, sia dalle macchine che dai colleghi che si sono arresi alla delega totale. Perché la vera rivoluzione dell’intelligenza artificiale non sarà sostituire gli umani, ma separare definitivamente chi sa usarla con disciplina da chi ne diventa schiavo inconsapevole.