Gli scudetti più drammatici decisi all’ultima giornata

«Ti dispiacerebbe per favore per favore per favore per favore andare all’istante a fare in culo? Capiti nei peggiori 60 secondi della mia vita e non ho nessuna voglia di vederti».

(Febbre a 90’)

 

Il controllo del biglietto o dell’abbonamento, la lunga camminata fino alle scale, l’ingresso vero e proprio nello stadio. Un rito sacro, che si ripete da anni. Ma chi ha avuto la fortuna (o la sfortuna) di averlo compiuto in un’ultima giornata di campionato in cui c’era qualcosa di grosso come uno scudetto in ballo, sa che quei momenti si dilatano all’infinito, che si respira qualcosa di differente. Ogni passo è più lento, ogni scalino sembra più alto, persino il verde del prato pare assumere un colore diverso. Ovviamente siamo noi a essere diversi: il respiro più affannato, il battito del cuore difficile da controllare. C’è chi si aggrappa alla scaramanzia, ai rituali perpetrati per settimane nella convinzione di poter avere davvero un impatto mistico su quel che avviene in campo: una delle frasi che ho sentito più volte durante la mia vita da stadio è «Rimettiti come stavi quando abbiamo segnato». E poi c’è chi ostenta sicurezza oppure è preda del pessimismo. Una partita di calcio in grado di decidere un campionato racchiude al suo interno praticamente ogni possibile spettro dell’animo umano. 

 

Per tre volte ero allo stadio mentre si scriveva la storia. Una volta da sconfitto, una volta da vincente, una volta da carnefice. Ho visto lo sconforto e lo scoramento dei miei compagni di tifo nel 1999, ma anche l’esplosione di gioia inaspettata nel 2000. E poi l’esperienza più complessa da restituire a parole: ho visto tifosi avversari sciogliersi in un pianto a dirotto. Era il 5 maggio del 2002, gli interisti erano in ogni settore dell’Olimpico, anche nel mio, teoricamente riservato ai sostenitori della Lazio. Ma avevano popolato anche i distinti Ovest: chi comprando un biglietto, chi ricevendo l’abbonamento da un amico laziale. Fu disturbante assistere a quel tracollo emotivo collettivo, peraltro inflitto da una squadra che durante quella stagione aveva fatto di tutto per far imbestialire i suoi tifosi. Ricordo ancora, uscendo dallo stadio, la scena di un tifoso interista che mandò in mille pezzi il casco del suo motorino contro un muretto: iniziò a sbatterlo con inaudita violenza, con la tenacia e la costanza di quella volta in cui Marcos Baghdatis ruppe quattro racchette in mezzo minuto agli Australian Open, alcune ancora chiuse nella plastica. Colpo dopo colpo il casco andava sgretolandosi, e più si lacerava, più quel tifoso imprecava e bestemmiava. Chissà per quanto andò avanti, chissà per quanto ancora continuò a pensarci.

 

La storia del calcio italiano è piena di finali in cui i 90 minuti conclusivi hanno deciso lo scudetto. Abbiamo ristretto il campo all’era dei tre punti per vittoria, escludendo così pagine leggendarie come il ribaltone del 1967, quando l’Inter perse a Mantova spalancando lo scudetto alla Juventus; o come l’arrivo a tre del 1973, che diede vita al mito della Fatal Verona con il Milan costretto a cedere al sorpasso all’ultima curva ai bianconeri, beffando anche le speranze della Lazio; oppure, il dolore incredibile dei tifosi della Fiorentina, con i viola che non andarono oltre il pareggio a Cagliari e prestarono il fianco al successo, ancora una volta, della Juventus, corsara a Catanzaro con un calcio di rigore di Liam Brady. Dalla stagione 1994/95, il titolo si è deciso all’ultima giornata in sette circostanze, ognuna con un livello di dramma diverso. Ed è proprio seguendo questo teorico livello di dramma che procederemo.