Il bivio esistenziale dell’open innovation per Alberto Onetti: guidare la strategia o condannarsi all’irrilevanza

Il bivio esistenziale dell’open innovation per Alberto Onetti: guidare la strategia o condannarsi all’irrilevanza

L’Open Innovation è morta? Questo è il titolo volutamente provocatorio che abbiamo dato al report di fine anno di Mind the Bridge con cui analizziamo i tanti dati che emergono dal processo di assegnazione dei Corporate Startup Stars Awards che copre tutte le Fortune 500 e Forbes 2000 companies. La risposta è no. Ma senza dubbio l’open innovation è sicuramente a un bivio esistenziale. Spoilerando le conclusioni, si aprono due scenari: l’open innovation evolve prendendosi un ruolo di guida al centro della scena strategica delle aziende. Oppure l’open innovation è destinata a “fading away”, proseguendo in una spirale involutiva con budget via via decrescenti man mano che l’hype associata alle startup si attenua (fenomeno già in atto da tempo).   

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Innovare resta necessario

I dati non mentono. A fine 2025 solo 190 delle aziende che figuravano nella Fortune Global 500 all’inizio del millennio sono ancora in classifica, ossia meno di 2 su 5. E l’intelligenza artificiale determinerà uno smottamento superiore a quello a cui abbiamo assistito a inizio secolo dopo la rivoluzione del dot.com. La mia scommessa è che entro il 2030 ne rimarranno meno della metà. In altre parole, innovazione e disruption hanno ridisegnato, di fatto stravolgendola, la morfologia del panorama industriale globale in meno di trent’anni. Le famiglie che sedevano sul Trono di Spade all’inizio degli anni 2000 sono quasi completamente scomparse. Qualche sopravvissuto resiste, ma il Trono di Spade è vicino alla distruzione. Il primo messaggio è il seguente: chi smette di innovare non sopravvive a lungo. L’Open Innovation è entrata in una fase di maturità. In Mind the Bridge ce ne occupiamo da oltre quindici anni, ossia da tempi non sospetti. Nel tempo abbiamo accompagnato tante aziende nei loro percorsi di avvicinamento alle startup, contribuendo a disegnare, implementare e smontare diversi tools. Parallelamente abbiamo man mano sofisticato il nostro framework di analisi, via via aggiungendo modelli e variazioni. Giunti al 2025 abbiamo ritenuto che il framework richiedesse di essere decisamente semplificato. Nella sostanza oggi i modelli possono essere ricondotti a tre motori principali di innovazione (“Venture Pillars”): il Buy, riconducibile al Venture Client. Il Make, rappresentato dal Venture Building. La Disruption, rappresentata dagli investimenti in Corporate Venture Capital. Questi motori si applicano in primis sul deal flow di startup con cui le aziende vengono in contatto. Quindi il fondamento dell’open innovation è la presenza e l’interazione con gli Startup Ecosystems: quanto più ampio, radicato, qualificato e globale è il dealflow, maggiore è la probabilità di estrarre valore attraverso i Venture Pillars. Tuttavia c’è anche un canale di origination interno rappresentato sia dalle funzioni preposte a produrre innovazione (R&D, IT, Tech, …) sia dal resto dell’azienda che, attraverso programmi di imprenditorialità, può contribuire al deal flow. Ed ecco il secondo messaggio: il playbook dell’open innovation si è molto semplificato rispetto al passato o è finito il tempo delle sperimentazioni.

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Alberto Onetti

L’anello debole

Tuttavia, non tutti i Venture Pillars sono ugualmente presidiati. Il Venture Client è ormai diventato una pratica mainstream. La maggior parte degli innovation leader lo gestisce con esperienza ed efficienza. Lo scouting è sempre più una commodity e fare POCs con startups è una pratica ormai diffusa. La parte su cui c’è ancora molto da lavorare è l’industrializzazione e la produzione di valore su scala (8/9 zeri e oltre). Sul fronte del Venture Building, la partita è ancora tutta da giocare. Sta emergendo un consenso crescente sul fatto che l’innovazione abbia bisogno di una vera e propria “fabbrica” per mettere a terra le iniziative di innovazione strategica. Tuttavia, l’eterogeneità e specificità delle soluzioni che le corporate devono sviluppare rende l’attività di building estremamente complicata: difficile da fare bene, raramente di successo e, ancora più raramente, non replicabile in serie. Il Corporate Venture Capital, infine, è pratica limitata a grandi aziende – non si può giocare con un pugno di dollari – che tuttavia spesso difettano in lungimiranza (e soprattutto stabilità di governance) per poterne raccogliere i risultati. 

Allo stesso modo le tre Foundational Areas non sono ancora tutte ugualmente presidiate con la stessa efficacia. Se da un lato le corporate più avanzate hanno imparato a connettersi con gli ecosistemi di startup – non solo a livello locale, ma anche nei principali tech hub mondiali, dove operano tramite Innovation Antennas e Outposts – e hanno saputo coinvolgere la propria base di dipendenti attraverso programmi di intrapreneurship, il vero collo di bottiglia resta l’integrazione tra l’universo della R&D (e IT) e il piccolo mondo dell’open innovation.  Qui siamo solo agli inizi. Ed è proprio qui che la partita si vincerà o si perderà: accelerare l’R&D attraverso Venture Clienting e Venture Building rappresenta la sfida chiave quella che farà davvero la differenza. Qualche azienda – in Italia penso ad Eni – sta facendo sperimentazioni molto interessanti su questo fronte. Ed ecco il terzo messaggio: il quadro si è semplificato, ma alcuni motori non girano ancora a pieno regime.

Il nuovo ruolo del CIO

Fino a poco tempo fa pochissime aziende avevano un Chief Innovation Officer (CIO). Nel migliore dei casi esisteva un responsabile dell’innovazione, tipicamente collocato due o tre livelli sotto il CEO, alla guida di un piccolo team con budget limitati. Il suo ruolo era soprattutto quello di creare le condizioni abilitanti: fare evangelizzazione interna sulle opportunità di innovare collaborando con partner atipici come startup e scaleup. Questa resta la situazione ancora più frequente. E le organization charts contano più di mille proclami. 

Se sostieni che innovare è fondamentale e chi fa questo mestiere in azienda è sprofondato nell’organigramma con un manipolo di riporti e un budget spuntato, nessuno ti prenderà sul serio, né fuori né dentro l’azienda. La sfida di oggi non è solo quella di dotarsi di un CIO, ma di dargli un mandato vero e ampio, facendolo passare da evangelizzatore a orchestratore. Deve avere un ruolo chiave perché è chiamato a dare sostanza al nuovo corso aziendale che, tornando a quanto di diceva all’inizio, è l’unico in grado di salvare l’azienda dalla inevitabile disruption. Se all’innovazione si chiede di generare nuovi business, aumentare i margini attraverso ottimizzazione di costi ed efficienza operativa, guidare l’evoluzione della strategia corporate, integrare l’R&D nel mondo dell’innovazione aperta e collaborativa, allora bisogna darle ruolo, centralità e risorse. Altrimenti l’innovazione rischia di restare un teatro destinato a chiudere i battenti (con tutta l’azienda).