«Non ci sono risorse aggiuntive, ma lacci e lacciuoli francamente talvolta anche pericolosi perché rischiano di ingabbiare chi fa investimenti. A noi europei manca ancora la capacità di stare in partita». Anna Ascani, vicepresidente della Camera dei Deputati, ha risposto alle domande di StartupItalia a partire dal Ddl AI, approvato nelle scorse settimane. La legge ha recepito molti aspetti dell’AI Act europeo e come hanno evidenziato alcuni esperti che abbiamo interpellato è fondamentale partire da un quadro chiaro di regole. Senza vedere l’innovazione come nemica delle normative.

Cosa pensa del Ddl sull’AI approvato di recente?
Penso che sia un’occasione persa. Il governo aveva lanciato il Ddl dal G7 in Puglia più di un anno fa, scomodando Papa Francesco. Doveva essere innovativo, doveva inserire l’Italia nella partita dell’Intelligenza artificiale. Ma così non è stato. L’ultimo articolo riguarda l’invarianza finanziaria: vale a dire che non ci sono risorse aggiuntive, ma lacci e lacciuoli francamente talvolta anche pericolosi perché rischiano di ingabbiare chi fa investimenti. E non c’è il recepimento di alcuni aspetti dell’AI Act. Penso alla famosa etichetta o filigrana che serve a riconoscere contenuti realizzati con l’AI.
Dal suo punto di vista la politica dovrebbe preoccuparsi del rischio perdita dei posti di lavoro con le applicazioni dell’AI?
Più che preoccuparsi dovremmo occuparcene. Dovremmo aprire un grande tavolo per le imprese, in particolare le PMI, per ragionare su come fare in modo che si eviti la sostituzione degli umani con le tecnologie. È possibile, talvolta è conveniente, ma dobbiamo incentivare l’AI come intelligenza aumentata. Come un supporto alle persone per fare meglio il proprio mestiere. Per fare questo servono risorse, serve un piano. In questo momento il governo non vuole e non può farlo. Perché ha spezzettato enormemente le competenze nei diversi ministeri, tra sottosegretario alla presidenza e Mimit in particolare. È molto difficile avere una cabina di regia così.

Che giudizio dà al governo su tematiche legate all’innovazione e all’AI?
Il giudizio è negativo. L’unico strumento che aveva messo in campo – transizione 5.0 – è fallito. Ci sono almeno 4 miliardi e mezzo che non riusciremo a spendere ed è molto importante che il ministro per gli Affari europei si batta per poterli utilizzare. Non c’è stato alcuno sforzo sulla formazione. Nessun tipo di iniziativa nazionale che serva a questo fine. Tanto meno nella scuola. Abbiamo un ministro dell’Istruzione che da mesi si vanta di avere vietato gli smartphone in classe, ma non sa dirci come educare ragazzi e ragazze a vivere in un mondo in cui l’AI è già realtà.
In Albania hanno battezzato un ministro AI per combattere la corruzione. Via percorribile o deriva pericolosa?
Direi che è propaganda. Quei servizi sono digitalizzati anche nel nostro Paese. È un atto di propaganda, anche ben riuscito. Ma è molto pericoloso, perché si dà l’idea sbagliata che l’AI serva a sostituire le persone. Il nome che è stato scelto negli anni 50, Intelligenza artificiale, non ci aiuta. L’AI deve essere messa al servizio dell’umano. Se un ministero la utilizza per efficientare le pratiche direi che è ottimo, ma tutto deve essere AI Act compliant.

Alla Camera dei Deputati state facendo qualcosa in merito?
Abbiamo fatto un lavoro di ascolto degli esperti delle Big Tech. Abbiamo pensato che il Parlamento non può limitarsi a descrivere un fenomeno, ma deve essere capace di governarlo e quindi di massimizzare le opportunità. Ci sono vari ambiti in cui l’AI può essere usata a supporto dell’attività parlamentare, dal servizio dell’amministrazione al lavoro di ricerca e traduzione. Per questo motivo abbiamo avviato una sperimentazione e grazie alla collaborazione con il mondo scientifico e accademico abbiamo rilasciato tre prototipi, uno strumento a supporto degli uffici per la redazione dei dossier, uno al servizio dei gruppi parlamentari per la scrittura degli emendamenti. Stiamo poi per mettere a disposizione dei cittadini uno strumento per conoscere meglio i lavori della Camera. Si chiamerà Depuchat, un chatbot che fornirà risposte sull’attività dei singoli parlamentari. Quest’ultimo è il più delicato, perché riguarda il rapporto con le persone all’esterno delle istituzioni che non deve essere viziato da allucinazioni o distorsioni. Lo rilasceremo quando avremo certezza della sua affidabilità.
Parliamo di startup: cosa può fare la politica nazionale per favorire gli investimenti?
Per l’AI l’unico investimento ad oggi è di un miliardo di euro, ed è lì dai tempi del governo Draghi. Abbiamo bisogno di un dialogo con chi gestisce i grandi fondi, proprio come accade negli USA dove anche i fondi pensione sono tra i principali finanziatori. Noi abbiamo nel nostro Paese un risparmio privato elevatissimo, ma bassa predisposizione al rischio. Le persone non sono formate, non si fa educazione finanziaria nelle scuole. Non mancano i soldi: la politica deve dialogare con gli interlocutori che ci sono e trovare risorse per un ambito dal quale dipende lo sviluppo della nostra economia nel futuro prossimo.

In Silicon Valley una grossa fetta di imprenditori è a favore di una tecnocrazia, magari con l’AI per rendere tutto più efficiente.
Che Sam Altman ci prospetti il miglior mondo possibile non mi sorprende dati i round miliardari che fa. Noi dobbiamo decidere fin dove ci vogliamo spingere. Questo compete alla politica a tutti i livelli. Deve tornare il tempo della politica.
Ritiene che l’Europa stia facendo il massimo possibile per recuperare terreno rispetto ai colossi del Tech.
L’Europa ha fatto bene a muoversi per prima nell’ambito della regolamentazione. Gli europei devono far valere questo aspetto: non lasciare che il mercato si regoli da sè. Noi dobbiamo darci limiti, disporre guard rail per correre. Manca però una capacità di stare in partita, di avere campioni europei. Ventisette Paesi non devono entrare in concorrenza tra di loro, dobbiamo scegliere ciascuno un proprio settore di competenza. L’Italia sta facendo molto sul fronte delle traduzioni con Translated, soluzione che compete a livello globale. Noi abbiamo aziende gigantesche che fanno investimenti importanti: far sì che diventino campioni europei ci aiuterebbe a creare un mercato dei 27, riconoscibile nel mondo. Oggi abbiamo soltanto Spotify, ma il resto è in mano agli americani.