La Commissione Europea alza il cartellino per Google. L’innovazione nell’AI non può avvenire in un far west normativo

La Commissione Europea alza il cartellino per Google. L’innovazione nell’AI non può avvenire in un far west normativo

Partiamo da un gesto che compiamo ogni giorno: creare. Un giornalista scrive un’inchiesta, un videomaker carica un tutorial su YouTube, un blogger condivide la sua passione. Lo fanno per comunicare, per guadagnare, per costruire una reputazione. E, in gran parte, contano su un patto non scritto con piattaforme come Google: in cambio di contenuti di qualità, ricevono visibilità, traffico, una chance di essere trovati. Ma cosa succede quando una delle parti decide, unilateralmente, di cambiare le regole del gioco?

Matteo Flora art

Ecco, la recente indagine formale aperta dalla Commissione Europea contro Google è esattamente questo: il fischio di un arbitro che sospetta un fallo gravissimo. L’accusa non è di poco conto: Google avrebbe sfruttato la sua posizione dominante per “aspirare” a man bassa i contenuti di editori web e creator di YouTube per addestrare i propri modelli di intelligenza artificiale generativa, come quelli dietro alle “AI Overviews” nei risultati di ricerca. Il tutto, ovviamente, senza chiedere permesso, senza offrire un compenso adeguato e, soprattutto, senza offrire una reale possibilità di rifiutare.

Il banchetto dell’AI e il conto non pagato

Immaginate un ristorante immenso, dove Google è proprietario, maître e anche l’unica strada per arrivarci. Gli chef (gli editori, i creator) portano le loro migliori pietanze, sperando di attirare i clienti. Un giorno, il proprietario decide di prendere un po’ di ingredienti da tutti i piatti, frullarli insieme e creare una nuova “pappa reale” nutritiva, l’AI, che serve direttamente all’ingresso. I clienti sono sazi prima ancora di sedersi al tavolo e gli chef si ritrovano con le cucine svuotate e i tavoli deserti.

Questa metafora spiega il cuore del problema. L’indagine della Commissione non si concentra tanto sulla violazione del copyright – quella è un’altra, seppur collegata, partita – quanto sull’abuso di posizione dominante, un concetto cardine del diritto della concorrenza europeo (sancito dall’articolo 102 del Trattato sul Funzionamento dell’UE).

I punti sollevati sono due, e sono pesantissimi:

  1. Editori web: Google avrebbe usato i loro articoli per generare i riassunti AI nei risultati di ricerca. Questo non solo riduce il traffico verso i siti originali (perché leggere l’articolo se hai già la risposta?), ma lo fa senza compensare chi ha prodotto, ricercato e verificato quell’informazione. La presunta “leva” è spietata: se non ci stai, rischi di perdere visibilità su Google Search, che per molti equivale a una condanna a morte digitale.
  2. Creator di YouTube: Allo stesso modo, i video e i contenuti caricati sulla piattaforma sarebbero stati usati per addestrare i modelli AI di Google. Anche qui, senza un compenso specifico e senza la possibilità di negare questo utilizzo se si vuole rimanere sulla piattaforma.

Oltre il Copyright: La Lente dell’Antitrust

Qui la faccenda si fa interessante e rivela una profonda comprensione delle dinamiche di potere digitali. Non siamo di fronte a un semplice “scraping”. Siamo di fronte a un’azienda che, grazie al suo dominio incontrastato nella ricerca e nel video sharing, potrebbe aver imposto condizioni capestro.

La domanda chiave dell’antitrust è: c’era una scelta reale? Un editore può davvero permettersi di non essere indicizzato da Google? Un creator può costruire una carriera ignorando YouTube? La risposta, nella stragrande maggioranza dei casi, è no. Ed è proprio su questa dipendenza strutturale che si innesta il potenziale abuso. Google non starebbe semplicemente usando dati, ma starebbe sfruttando una posizione di potere per ottenerli a condizioni che nessun altro operatore sul mercato potrebbe mai sognare di avere. Di fatto, impedisce a modelli di AI rivali di accedere allo stesso tesoro di dati (le policy di YouTube, ad esempio, vietano a terzi di usare i contenuti per addestrare le proprie AI), creando un vantaggio competitivo potenzialmente incolmabile.

Questo schema non è nuovo. Ricalca quello che la sociologa Shoshana Zuboff ha definito “capitalismo della sorveglianza” nel suo omonimo e fondamentale saggio: l’appropriazione unilaterale di esperienze e dati umani come materia prima gratuita per creare prodotti predittivi e, oggi, generativi. Stiamo assistendo a una nuova forma di data extractivism, dove il valore non viene creato in modo equo, ma estratto da un ecosistema di cui si è, allo stesso tempo, custodi e predatori.

La Mossa Strategica dell’Europa

Questa indagine non nasce nel vuoto. È un pezzo coerente del grande puzzle che l’Europa sta costruendo da anni con il Digital Markets Act (DMA), il Digital Services Act (DSA) e, più di recente, l’AI Act. Se quelle normative disegnano le regole del futuro, l’antitrust è il martello con cui si interviene nel presente per correggere le distorsioni più gravi.

La Commissione sta mandando un messaggio forte a tutto il settore: l’innovazione nell’AI è fondamentale, ma non può avvenire in un far west normativo, a spese dei diritti, della concorrenza e della sostenibilità economica di interi settori creativi e informativi. Se i creatori di valore – giornalisti, artisti, educatori – non vengono remunerati per il loro lavoro, quel valore smetterà semplicemente di essere prodotto. E un’AI addestrata su un deserto di contenuti di bassa qualità o su informazioni obsolete sarà, alla fine, un’AI inutile.

La partita è appena iniziata e l’esito non è scontato. Ma la direzione è chiara. Stiamo andando verso un futuro in cui il “petrolio” del ventunesimo secolo – i dati, i contenuti, la creatività umana – dovrà avere un prezzo. L’indagine su Google non è solo una battaglia legale; è un negoziato fondamentale per definire chi paga il conto per l’intelligenza artificiale e, in ultima analisi, per decidere che tipo di ecosistema digitale vogliamo costruire per il futuro. Uno basato sull’estrazione o sulla collaborazione? La risposta a questa domanda definirà i prossimi dieci anni di internet.