La fama uccide, letteralmente: essere famosi accorcia la vita di quattro anni

L’idea che la celebrità sia un traguardo da inseguire a ogni costo continua a dominare l’immaginario collettivo della musica. Eppure un nuovo studio scientifico invita a una riflessione meno romantica e molto più cruda: per alcuni artisti, la fama potrebbe tradursi in una vita più breve.

Lo studio e i risultati sulla mortalità

Il lavoro, condotto da un team di ricerca in Germania guidato da Johanna Hepp e Michael Dufner, ha analizzato 648 cantanti attivi tra il 1950 e il 1990. Da un lato 324 star internazionali come Elvis Presley, Kurt Cobain, Sam Cooke e Janis Joplin, dall’altro un gruppo di pari dimensioni composto da musicisti simili per genere musicale, età, nazionalità, etnia e ruolo, ma senza un livello significativo di notorietà. L’obiettivo era isolare la variabile “successo” per capire se potesse essere correlata alla mortalità.

Un algoritmo può prevenire la morte cardiaca improvvisa e salvare la vita
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Secondo l’analisi, gli artisti famosi vivono in media quattro anni in meno dei colleghi meno conosciuti. Il rischio di morte prematura risulta superiore del trenta per cento, un valore considerato statisticamente robusto dai ricercatori. Non sembrano contare fattori socioeconomici o abitudini professionali, dato che i due gruppi erano bilanciati in partenza. Il punto critico appare essere il momento in cui il successo esplode, portando con sé un cambiamento radicale nello stile di vita.

Le possibili cause e le interpretazioni scientifiche

Pressione costante, aspettative del pubblico, isolamento, perdita della privacy, ritmi irregolari, e in alcuni casi abuso di sostanze, emergono come potenziali fattori di stress cronico. Lo studio evidenzia inoltre che i cantanti solisti risultano più vulnerabili rispetto a chi fa parte di una band, verosimilmente perché dispongono di un contesto sociale più fragile e meno protettivo.

Nonostante i risultati siano significativi, i ricercatori precisano che si tratta di un’analisi osservazionale, quindi non è possibile stabilire un nesso causale diretto, ma soltanto una correlazione. Tuttavia il dato resta impressionante e, secondo gli autori, paragonabile a comportamenti a rischio come il fumo occasionale.

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