La forza nascosta che tiene insieme l’energia: l’età dell’idrogeno sta iniziando davvero?

La forza nascosta che tiene insieme l’energia: l’età dell’idrogeno sta iniziando davvero?

Nel mondo dell’energia c’è un paradosso che assomiglia a quei film in cui il protagonista deve correre per restare fermo. Più aumentano le rinnovabili, più il sistema deve faticare per mantenere l’equilibrio. Il sole sorge quando vuole lui, il vento decide i propri orari e la rete elettrica, invece, pretende un ordine quasi militare. In questa storia di armonie instabili, l’idrogeno entra come un ingegnere silenzioso: non promette magie, ma costruisce ponti. Collega ciò che è intermittente con ciò che deve funzionare sempre, unisce settori che finora hanno parlato lingue diverse e offre un modo per mettere da parte energia nei giorni buoni, per usarla in quelli difficili.

È dentro questa complessità – e dentro questa promessa – che opera lo Spoke 4 “Clean hydrogen and final use” della Fondazione NEST, dove ricerca e industria provano a trasformare un vettore spesso idealizzato in una tecnologia concreta e affidabile.

Ne abbiamo parlato con la professoressa Loredana Magistri, coordinatrice dello spoke 4 “Clean hydrogen and final use” della Fondazione NEST e ordinaria all’Università di Genova al Dipartimento di ingegneria meccanica, energetica, gestionale e dei trasporti – DIME.

Idrogeno 1

Professoressa, a che punto è la transizione energetica in Italia?
Nel nostro Paese si sta facendo molto: oggi più del 40% dell’energia elettrica immessa in rete proviene da fonti rinnovabili. È un dato significativo, che testimonia una chiara volontà di ridurre l’uso delle fonti tradizionali ad alta emissione.

Tutto bene, quindi?
Non proprio, infatti una parte importante di queste rinnovabili non è programmabile: pensiamo a fotovoltaico ed eolico, che dipendono dalle condizioni atmosferiche. La rete elettrica, però, deve essere sempre perfettamente bilanciata tra ciò che viene prodotto e ciò che viene consumato. Quando questo equilibrio si rompe, possono sorgere disturbi di frequenza e tensione tali da portare, nei casi più critici, al distacco di porzioni di rete.

Perché l’accumulo è diventato un tema così centrale per la transizione energetica?
Perché se vogliamo aumentare ancora la quota di rinnovabili dobbiamo imparare a spostare l’energia nel tempo. Oggi abbiamo diverse tecnologie: gli accumuli elettrochimici, cioè le batterie, e l’accumulo idroelettrico con pompaggio, in cui si sfrutta l’energia in eccesso per riportare l’acqua da un bacino di valle a uno di monte, creando una riserva di energia potenziale da usare quando necessario. Senza accumulo, siamo costretti a limitare la penetrazione delle rinnovabili, proprio per non mettere in crisi la stabilità della rete.

Arriviamo all’idrogeno: che ruolo può giocare in questo sistema?
L’idrogeno non è una fonte primaria, ma un vettore energetico. Può assolvere a due funzioni chiave. La prima è l’accumulo di grandi quantità di energia per periodi anche lunghi: lo produco quando ho un surplus di energia rinnovabile e lo utilizzo quando la produzione cala o la domanda cresce. La seconda è il cosiddetto sector coupling: l’idrogeno consente di portare l’energia elettrica rinnovabile in quei settori dove non è semplice usare direttamente l’elettricità, come parte del trasporto marittimo o alcuni processi industriali che richiedono idrogeno o derivati per funzionare.

Negli ultimi anni si è parlato molto di colori dell’idrogeno. Di cosa si tratta?
Sì, è stata introdotta una vera e propria tassonomia dei colori, che classificano l’idrogeno in base al processo di produzione. Oggi gran parte dell’idrogeno è ancora grigio, prodotto a partire da combustibili fossili con emissioni di CO₂ associate. Nell’ottica della decarbonizzazione, l’interesse si concentra sull’idrogeno verde, generato tramite elettrolizzatori alimentati da energia rinnovabile, spesso proprio nei momenti di surplus. Esistono poi percorsi legati alle biomasse, che permettono di parlare di idrogeno di origine bio. In tutti i casi, l’idea è ridurre drasticamente le emissioni lungo il ciclo di vita del vettore.

Sul fronte della produzione, quali sono oggi i principali ostacoli tecnici ed economici?
Il primo è il costo. Gli elettrolizzatori sono tecnologie ancora costose, anche perché impiegano materiali considerati “critical raw materials”, cioè materie prime critiche. Alcuni dispositivi, per esempio, richiedono il platino per catalizzare le reazioni elettrochimiche, con costi elevati e problemi di approvvigionamento. Se producessimo idrogeno usando fonti fossili tradizionali, rischieremmo di spostare solo geograficamente le emissioni di CO₂, senza una reale riduzione complessiva. Per questo la sfida è produrre idrogeno a basse emissioni e a costi competitivi.

Uno dei nodi più complessi riguarda trasporto e stoccaggio dell’idrogeno. Ce li può spiegare?
L’idrogeno ha un contenuto energetico per unità di massa molto elevato, e questo spesso crea aspettative quasi miracolistiche. In realtà, per molti usi pratici ci interessa l’energia per unità di volume. Se confrontiamo 1 litro di diesel con 1 litro di idrogeno liquido, il diesel contiene circa quattro volte più energia. Inoltre, per mantenere l’idrogeno in forma liquida servono temperature intorno a –253 °C, con un consumo energetico che può arrivare a circa il 30% dell’energia contenuta nello stesso idrogeno.

Ci sono alternative?
L’alternativa è comprimerlo a pressioni molto elevate, dell’ordine di 350–700 bar, con tutte le implicazioni in termini di progettazione dei serbatoi, sicurezza e normativa. Non è banale pensare, per esempio, a un veicolo con una bombola a 700 bar senza prevedere standard estremamente rigorosi.

Questi limiti sono strutturali o la ricerca ha ancora margine per superarli?
La ricerca ha uno spazio enorme. Si stanno studiando, e in parte già testando, materiali capaci di assorbire l’idrogeno in modo simile a una spugna. Sono metalli o miscele di metalli che, a contatto con l’idrogeno, formano idruri metallici stabili: l’idrogeno viene intrappolato nella struttura cristallina del materiale e poi rilasciato quando serve. Parallelamente lavoriamo su materiali per serbatoi ad alta pressione che siano leggeri, resistenti e garantiscano i requisiti di sicurezza necessari.

Vi fermate all’idrogeno?
Non ci fermiamo all’idrogeno: a partire dall’idrogeno verde si stanno sviluppando anche altri combustibili di origine elettrica, i cosiddetti e-fuel, come metanolo o ammoniaca, che possono risolvere alcuni problemi di trasporto e stoccaggio.

Entriamo nello Spoke 4: su cosa state lavorando in concreto?
Lo Spoke 4 copre l’intera catena: produzione, stoccaggio e utilizzo finale dell’idrogeno pulito. Dal lato dei materiali, lavoriamo per aumentarne la capacità di assorbimento, ridurne i costi e migliorare la durabilità nel tempo. Dal lato dei dispositivi, ci concentriamo sulle celle a combustibile, che sono convertitori energetici ad alto rendimento: vogliamo massimizzarne l’efficienza e la vita utile rispetto ad altre tecnologie di conversione.

Ci sono già applicazioni concrete?
Abbiamo realizzato prototipi e dimostratori, tra cui un veicolo per applicazioni speciali in ambito industriale alimentato a idrogeno e dotato di cella a combustibile per la propulsione. Inoltre, sono state create infrastrutture di laboratorio dedicate al test di nuove tecnologie e materiali, anche su scala più ampia, proprio per accelerare il passaggio dalla ricerca alla dimostrazione.

Se guardiamo all’Italia, qual è secondo lei il principale ostacolo a un’accelerazione della transizione energetica?
Direi che ci sono tutti questi elementi, ma quello culturale pesa ancora molto. La sostenibilità ha tre dimensioni – economica, sociale e ambientale – e spesso ci concentriamo soprattutto su quella ambientale. Perché la transizione si realizzi davvero, però, servono anche accettazione sociale e sostenibilità economica: dobbiamo chiederci quanto siamo disposti a pagare per l’energia e quanto siamo disposti a impattare sull’ambiente.

Eppure, a parole, il consenso alla transizione energetica non manca…
Non è una scelta semplice, ma è una scelta inevitabile. A volte, dal legislatore alle piccole e medie imprese, a parole c’è consenso sulla transizione; nella pratica, però, viene ancora percepita principalmente come un costo, non come un’opportunità.

Casi come il blackout in Spagna sono spesso usati per mettere in dubbio la transizione. La complessità di questo nuovo sistema energetico la preoccupa?
Non direi che mi preoccupa, ma sono consapevole che stiamo vivendo una rivoluzione. Come c’è stata la rivoluzione industriale, ora siamo in un’altra fase di cambiamento di paradigma. Le nostre richieste di energia elettrica stanno crescendo: se vogliamo davvero passare alla mobilità elettrica, avremo bisogno di più energia e di potenze maggiori anche nelle abitazioni; non possiamo pensare di ricaricare tutto con la presa tradizionale.

E poi le grandi “Cattedrali digitali” come i data center, altamente energivori…
Esatto, dobbiamo fare i conti con l’enorme fabbisogno energetico di data center e sistemi per il training dei modelli di intelligenza artificiale. Dall’altra parte, però, dobbiamo considerare i costi del cambiamento climatico: incendi, inondazioni, distruzione di infrastrutture, senza contare il costo umano. Sono costi enormi, spesso sottovalutati. La sfida non è evitare la complessità, ma decidere dove concentrare la nostra attenzione: l’emissione di CO₂ dovrebbe essere il “nemico comune” a livello globale.

Qual è il messaggio che può partire dai laboratori di NEST?
Che non esiste una tecnologia salvifica, ma un mix di soluzioni che vanno fatte dialogare tra loro. L’idrogeno pulito è uno dei tasselli di questa transizione, non l’unico. Abbiamo bisogno di ricerca, di politiche coerenti nel tempo e di una maggiore consapevolezza collettiva. E abbiamo bisogno di non perdere di vista la priorità: limitare le emissioni e contenere gli effetti del cambiamento climatico.