«Sognavo di trasferirmi a Boston, perché mia padre era un dottore, uno specialista della chirurgia della mano. E il suo mentor abitava qui. Così tutti gli anni lo seguivamo: mentre lui imparava nuove tecniche, noi giravamo la città. Ho sempre avuto la voglia di studiare all’estero. Pian piano mi sono resa conto che da giovane ricercatrice avrei avuto più autonomia e stimoli». Raffaella Sadun, alla fine, ce l’ha fatto a raggiungere la città del Massachusetts, hub di eccellenza per la ricerca universitaria e l’ecosistema delle startup. In qualità di Charles E. Wilson Professor of Business Administration alla Harvard Business School, si è formata per anni su un tema chiave per l’economia: la produttività delle imprese.
In questa nuova puntata della rubrica “Italiani dell’altro mondo” dialoghiamo con un esperta non soltanto di economia, ma anche di mentalità. La produttività, per la quale noi italiani non brilliamo, non è soltanto software, ma prima di tutto cultura diffusa nell’azienda. «Le aziende di questi tempi devono riuscire a essere essenziali, indispensabili».

Il valore nascosto delle imprese
Nata a Roma, cresciuta a Trasteverde, Raffaella Sadun ha studiato economia politica alla Sapienza. «Inizialmente la mia intenzione era fare economia internazionale. Ma poi ho avuto la fortuna di fare un master a Barcellona dove mi sono interessata di crescita economica». Siamo negli anni antecedenti la crisi del 2008. Non è facile capire perché alcuni Paesi sono più produttivi rispetto ad altri e le risposte sono molteplici.
Poi nel 2003 è volata a Londra, alla LSE, per il dottorato. «In quell’occasione, per un incontro casuale, ho scoperto il lavoro di due ricercatori: avevano un progetto sulle pratiche manageriali capaci di influenzare la produttività delle imprese e al tempo stesso la crescita macroeconomica». Perché le aziende sono parte di una società e il valore aggiunto che producono ha ricadute positive non solo sui dipendenti, sugli azionisti, ma anche sui territori, sull’economia.

Che cos’è la produttività?
Parliamo dunque di questa produttività con chi la studia in uno degli atenei più prestigiosi al mondo. «La produttività è cultura per me – premette Sadun -. Le imprese che sono sulla frontiera della produttività crescono e creano valore per lavoratori e consumatori». Non è difficile immaginarsi che queste aziende rispettino standard elevati. «Sono posti in cui l’ambizione di crescere e migliorare non arriva banalmente dall’alto, ma è condivisa a tutti i livelli dell’organizzazione». E a questo punto la professoressa dell’Harvard Business School introduce due elementi fondamentali, preziosi per aziende e startup italiane.
«Quando si parla di produttività ci sono due passaggi: prima viene la strategia, ovvero chi siamo noi come impresa e come vogliamo creare valore rispetto ai competitor. Non parli di produttività se non sai prima perché esisti. E soltanto una volta chiarito questo elemento capisci quali sono le persone che possono aiutare lo sviluppo dell’impresa». Ma dove si notano gli esempi più chiari di un simile cambio di passo?

Il problema dell’Italia
«Lo si nota nelle imprese che vengono acquisite: le imprese che comprano sanno come essere più produttive, rimuovono barriere al miglioramento che talvolta sono di natura manageriale. Una delle cose più frustranti è dovuta al fatto che chi ha il controllo delle risorse non sempre è la persona adatta». E qui veniamo a un altro elemento che da Harvard inquadra bene l’ecosistema italiano delle PMI.
«Per poter crescere bisogna aver un riconoscimento spietato del merito – sottolinea Sadun -. In Italia ci sono imprese fenomenali, ma anche molte non produttive. Penso ad alcune realtà famigliari, più statiche, in cui prevalgono altri obiettivi come il controllo dell’azienda. Ma questo indebolisce la crescita». Senza ovviamente fare di tutta l’erba un fascio, è evidente che la tesi di Raffaella Sadun inquadri uno dei grandi problemi del nostro sistema produttivo, su cui bisogna intervenire.

La produttività per rimanere competitivi
Specie in un’epoca ricca di incertezze. Ci sono i dazi di Donald Trump e poi l’ondata dell’AI, che promette sviluppo, ma anche importanti tagli dei costi. Partiamo dalle tariffe, per ascoltare una lettura originale di cosa dovrebbero fare le imprese oggi, sapendo cosa è successo dopo la crisi finanziaria del 2008.
«Quello che riscontriamo è senz’altro un aumento dell’incertezza – spiega Sadun -. E quando accade tipicamente le imprese smettono di investire. Tuttavia altri choc ci hanno mostrato che c’è variabilità nelle decisioni. Dopo il 2008 molte aziende hanno smesso di fare ricerca, mentre chi ha continuato ha avuto grossi ritorni alla fine della crisi». Nessuno dice che sia facile, ma è condivisibile quanto ribadito dalla professoressa. «Diventa fondamentale avere una ragione d’essere che porti comunque i consumatori all’impresa. Bisogna essere essenziali di questi tempi».

L’AI? Come l’elettricità
Anche perché c’è un altro fattore che influenza presente e futuro. L’Intelligenza artificiale secondo Raffaella Sadun ci pone di fronte a un cambiamento storico. «Per l’elettricità ci sono voluti 40 anni prima di riscontrare aumenti di produttività». Potrebbero volercene molti di meno per contemplare i grossi cambiamenti su questo fronte. «Non esiste un play book: le imprese di frontiera lo stanno creando con tante piccole innovazioni disperse. Bisogna capire come questa nuova fonte di conoscenza riesce a ridurre i costi o aumentare qualità di processo o di prodotto».
Da economista ritiene che in prospettiva si allargherà il gap tra chi sa utilizzare l’AI e chi preferirà non farci i conti. «Per chi è già sulla frontiera il salto sarà breve. In futuro comunque credo vedremo più differenze tra imprese: da una parte quelle entrate nel loop di sperimentazione con l’Intelligenza artificiale, dall’altra quelle per cui sarà troppo costoso cambiare».