La proposta coraggiosa di Paolo Iabichino: «Torniamo a comunicare con etica, empatia e visione»

La proposta coraggiosa di Paolo Iabichino: «Torniamo a comunicare con etica, empatia e visione»

Quali sfide attendono la società di domani? Quali sono i rischi e quali le possibilità offerte dallo sviluppo tecnologico? Per la rubrica “Futuro da sfogliare” un estratto del libro Parole che servono di Paolo Iabichino, edito da Apogeo.

***

Scrivere per vendere è un’arte e una scienza. La scrittura pubblicitaria, o copywriting, è la disciplina che trasforma le parole in strumenti di persuasione, spingendo il pubblico a compiere un’azione: acquistare un prodotto, aderire a un’i-dea, seguire un brand. Ma come nasce un testo pubblicitario efficace? Quali tecniche permettono di catturare l’attenzio-ne, stimolare il desiderio e generare una risposta immediata? Questo libro nasce con l’intento di esplorare il mondo della scrittura pubblicitaria in tutte le sue sfaccettature, offrendo una guida pratica e teorica a chiunque voglia padroneggiare l’arte del copywriting. Dalle origini della pubblicità alla sua evoluzione digitale, dai principi della persuasione alle tecniche di storytelling, il viaggio che affronteremo insieme sarà ricco di spunti, esempi e strategie utili per scrivere testi che funzionano.

Perché un libro sulla scrittura pubblicitaria, oggi?

Viviamo in un’epoca dominata dai contenuti. Ogni giorno siamo esposti a migliaia di messaggi pubblicitari, consapevoli e inconsapevoli. Dai cartelloni in strada ai post sui social media, dagli spot televisivi alle email promozionali, ogni interazione con un brand passa attraverso le parole. Saperle scegliere con precisione è fondamentale per emergere in un mercato sempre più competitivo. Eppure, la scrittura pubblicitaria non è solo una questione di persuasione. È anche un esercizio di sintesi e chiarezza. Nel mondo dell’informazione istantanea e della soglia di attenzione sempre più ridotta, chi scrive per vendere deve padroneggiare il potere della brevità senza perdere di efficacia.

L’importanza delle parole giuste

Le parole hanno il potere di evocare emozioni, creare immagini mentali e stimolare l’azione. Ma non tutte le parole funzionano allo stesso modo. Una delle sfide principali del copywriting è trovare il termine giusto per ogni contesto, evitando espressioni generiche o abusate. Pensiamo, ad esempio, alla parola “qualità”. È un termine onnipresente nella pubblicità, ma è davvero efficace? Se tutti i brand dichiarano di offrire qualità, il concetto perde di valore.

Il compito del copywriter è rendere tangibile questa affermazione: dimostrarla con esempi concreti, raccontarla attraverso storie, trasformarla in un’esperienza memorabile per il lettore. Un altro aspetto fondamentale è la capacità di scrivere per il pubblico giusto. Il linguaggio che funziona per un brand di lusso sarà diverso da quello usato per un pubblico giovane e informale. La scelta del tono, dello stile e della struttura del messaggio può fare la differenza tra un testo che colpisce e uno che passa inosservato.

Dalla carta al digitale

La pubblicità ha attraversato diverse epoche, adattandosi ai mezzi di comunicazione disponibili. Dalle prime réclame stampate ai jingle radiofonici, dagli spot televisivi ai banner online, ogni canale ha richiesto un’evoluzione del linguaggio e delle strategie persuasive. Oggi, il copywriting digitale ha assunto un ruolo dominante. Il web ha cambiato le regole del gioco, introducendo nuove sfide e opportunità. L’ottimizzazione per i motori di ricerca (SEO), la scrittura per i social media e l’email marketing sono solo alcune delle aree in cui il copywriting moderno deve eccellere.

Scrivere per il web significa comprendere come le persone leggono online: in modo rapido, selettivo, spesso distratto. Titoli accattivanti, frasi brevi e call to action efficaci sono essenziali per catturare l’attenzione e mantenere il lettore coinvolto.

Il valore della creatività e della strategia

Un buon copywriter non è solo un bravo scrittore, ma anche un fine stratega. Ogni parola scelta deve avere uno scopo preciso, ogni frase deve contribuire a costruire un percorso mentale che conduca il lettore verso l’azione desiderata. La creatività è un ingrediente fondamentale, ma non può prescindere da una solida base strategica. Scrivere testi pubblicitari non significa solo inventare slogan brillanti, ma comprendere il pubblico, conoscere il mercato, studiare la concorrenza e saper testare l’efficacia dei messaggi.

Il percorso che affronteremo insieme sarà strutturato in modo progressivo. Ti invito a leggere con curiosità e spirito critico, sperimentando le tecniche proposte e adattandole al tuo stile e ai tuoi obiettivi. Il copywriting non è una scienza esatta: è un processo di continua sperimentazione e miglioramento. Se, alla fine avrai acquisito maggiore consapevolezza sulla potenza delle parole e sulla loro capacità di influenzare le scelte del pubblico, allora avremo raggiunto il nostro obiettivo.

parole che servono 1

ChatGPT is not my friend

Non ci avete creduto, vero? Perché se davvero avete scelto questo libro basandovi soltanto sulla lettura delle pagine precedenti, compilate da un’intelligenza generativa, può darsi che vi ritroviate a chiedere il rimborso del prezzo di copertina alla vostra libreria di fiducia. Ma se invece volete proseguire, mi darete la possibilità di raccontarvi che cosa significhi per me scrivere la pubblicità oggi.

Prima di iniziare, però, ripercorrete ancora una volta i paragrafi precedenti per leggere tra le righe tutto quello che la scrittura pubblicitaria ha sbagliato nella maggior parte dei casi, contribuendo a intossicare il nostro immaginario collettivo. Perché quando si scrive per “influenzare le scelte del pubblico” le dita sulla tastiera si muovono in maniera diversa rispetto a una scrittura che cerca un’idea di comunicazione per “motivare” quella scelta. Sembra una sfumatura impercettibile, eppure è la postura che, secondo me, bisogna tenere per dare a questo mestiere una qualche possibilità di sopravvivenza.

Sì, è un mestiere, quello della pubblicità. Dispiace dirvelo così subito in apertura, ma è bene chiarirsi sulla piega che prenderanno le prossime pagine, visto che non saranno scritte da un bot, ma dal sottoscritto. Chi è il sottoscritto ve lo racconto nel primo capitolo, e se mi sono avventurato dentro questa nuova fatica editoriale è perché, insieme a chi pubblica, crediamo che sia il momento di assumersi qualche responsabilità in prima persona.

Ovviamente nella speranza che chi legge senta la stessa urgenza, un’urgenza affidataci dalle emergenze che stanno colonizzando sempre più il nostro mondo, talmente tante che non possiamo più permetterci di delegare a terze parti la presa in carico della bonifica necessaria a ridurre le diseguaglianze, contrastare la crisi climatica, affrontare diversità, inclusioni e tensioni socioculturali che stanno disintegrando ecosistemi e democrazie. Quindi, tanto per mettere in chiaro un paio di cose: io non ritengo la scrittura pubblicitaria “un’arte e una scienza”, con buona pace della prima riga che apre l’introduzione a questo volume. Il copywriting è un mestiere, un lavoro, e se nelle agenzie si finisce per ingrossare le fila dei reparti creativi, non dobbiamo illuderci di avere a che fare con l’arte: la creatività messa al servizio dell’arte è davvero un’altra cosa.

Se poi chi scrive campagne, slogan e contenuti su internet debba essere più o meno trattato al rango di chi lavora con la scienza, non me ne si voglia, ma davvero io sento un disagio profondo e mi permetto di trollare l’artefice della mia introduzione, che non sembra avere contezza del mestiere che faccio, o di quello che vorrei diventasse per provare a fare in modo che le persone tornino ad amarlo. Lo scrivevo già nel 2009, dentro il mio primo lavoro dedicato alla scrittura pubblicitaria, e mi sembra che il mio scrivere di allora sia tanto più necessario oggi per chiunque abbia a che fare con il copywriting: “C’è bisogno d’iniettare una nuova consapevolezza all’intera categoria”.

iabichino 1
Paolo Iabichino (si ringrazia Apogeo per la foto)

È questa consapevolezza l’oggetto del contendere, solo che allora l’iceberg all’orizzonte era l’utilizzo scellerato delle piattaforme digitali per illudere le marche che relazioni e community si potessero innestare grazie a sontuose scorribande nei social network. Oggi, l’arrivo delle intelligenze artificiali all’interno dei mestieri creativi rappresenta uno spartiacque fondamentale per definire il nostro ruolo, la partita che vogliamo giocare e soprattutto la rilevanza che vogliamo avere come professionisti e professioniste della comunicazione d’impresa.

Ora dovrei chiarire quale sia il mio pensiero al riguardo, per poter dare un reale contributo a chi scrive, a chi decide, a chi pianifica la pubblicità, ma anche a chi ci investe. Ho provato a esprimerlo nel titolo, perché scrivere titoli è la cosa che mi riesce meglio: le “parole che servono” sono quelle di cui avremo bisogno nei prossimi anni, ma sono anche quelle che si mettono al servizio di qualcosa, di qualsiasi cosa.

E so che il servire sembra non avere nulla a cha fare con il mestiere, eppure ritengo che la nostra professione dovrebbe darsi la possibilità di servire a dare (oltre che a dire) qualcosa, qualsiasi cosa, perché la pubblicità influenza in maniera radicale il mondo fuori dalle nostre sale riunioni e dai nostri PowerPoint. Per questo motivo, credo che serva una nuova semantica per la pubblicità, perché la vecchia non ha prodotto granché di buono e, soprattutto, come avete appena letto, sta addestrando gli algoritmi a continuare a propagare una mentalità che non ricerca altro se non il profitto fine a se stesso.

Esiste un modo diverso per scrivere la comunicazione di marche, prodotti, servizi, enti e istituzioni che non hanno il profitto come unico scopo del proprio stare sul mercato e, a questo punto, urge definire subito il mio personalissimo punto di vista in relazione alla rivoluzione imposta dall’arrivo delle intelligenze artificiali nel nostro campo. Ora, siccome è un pensiero che a più riprese ho avuto modo di esprimere in maniera più o meno compiuta, mi si consenta di prendere a prestito l’intervento che mi ha visto protagonista durante il secondo appuntamento del programma Giovani & Industria 2023, l’assemblea pubblica del Club Digitale di Unindustria Reggio Emilia, che ha voluto fare il punto sul ruolo della creatività personale in un contesto caratterizzato da digitalizzazione, automazione e robotica, per costruire valore, differenziarsi e competere. Il titolo dell’appuntamento era in inglese, sono quasi sempre in inglese i titoli degli eventi, forse perché gli sponsor lo apprezzano di più: Embracing Creativity, l’abbraccio della creatività, quello del panel che ospitava la mia relazione e che riporto di seguito nei suoi punti salienti.

Il registro è quello colloquiale dell’intervento pubblico, opportunamente edulcorato, riveduto e corretto solo in alcuni passaggi per renderne più agevole la lettura. Iniziavo facendo il punto su quella che considero una delle difficoltà più significative che abbiamo in questo momento, che è di tipo linguistico: noi descriviamo quello che sta succedendo con parole che non abbiamo. I relatori e le relatrici che mi avevano preceduto nel corso della giornata avevano usato nei loro interventi la parola “creatività” a proposito di algoritmi, contribuendo di fatto ad alimentare un equivoco cognitivo che credo nasca anche nel mondo della pubblicità, quando abbiamo deciso che nelle agenzie di comunicazione il mio lavoro fosse un lavoro creativo. Ho sempre pensato che, in realtà, noi siamo dei mestieranti: io stesso mi definisco scrittore pubblicitario e sono un direttore creativo, perché dirigo team che nelle agenzie vengono chiamate risorse creative. Ma la creatività, quella che arriva dalla sensibilità dell’umano, quella che fa decidere a Pollock di far cadere del colore su una tela usando soltanto la forza di gravità per esprimere il suo stare nel mondo, ecco quella non ha niente a che fare con ciò che facciamo ogni giorno dentro le agenzie e i centri media. Anche affidare i piani editoriali social a ChatGPT è frutto di un equivoco: l’equivoco di chi ha svenduto quei piani editoriali alle aziende, facendoli pagare poche decine di euro a post e quindi sì, certo che conviene farlo fare a ChatGPT.

Ma questo equivoco è stato costruito dentro le nostre agenzie e io scrivo pubblicità da troppi anni per accettare che ChatGPT si occupi di copywriting, a meno che non si tratti di scrittura compilativa, perché il copywriting è un’altra cosa. Volete dare in pasto a ChatGPT, SEO, SEM, le descrizioni dei prodotti? Fate pure, ma non parlatemi di copywriting. Perché così, secondo me, davvero incorriamo in un problema tassonomico e linguistico: stiamo definendo con parole antiche qualcosa che sta rivoluzionando il mondo della comunicazione, del fare impresa e dell’industria.

Per quanto riguarda la mia posizione, in questo momento m’interessa soltanto alzare l’asticella. Lo faccio perché, da Maestro della Scuola Holden, sono in contatto con i ragazzi e le ragazze che vogliono fare nel futuro questo mestiere. Lo faccio perché nasco nella scrittura digitale, perché sono cresciuto creativamente nell’humus di un’agenzia straordinaria come Ogilvy, dove abitava un certo tipo di cultura e di sensibilità nei confronti delle interlocuzioni. Non a caso, una delle frasi più note di David Ogilvy era “il consumatore non è uno stupido, il consumatore è tua moglie”.

PAOLO IABICHINO scaled 1 1

Questo Ogilvy lo diceva negli anni Sessanta, in pieno boom economico, quando in Italia invece si creava a tavolino la figura della casalinga di Voghera, ovvero una fantomatica signora sulla soglia della povertà, pochissimo scolarizzata, rimbecillita di televisione dalla mattina alla sera. Dico questo per far capire quanto sia diverso il mio atteggiamento nei confronti di questo mestiere: io provo a scrivere ogni giorno una pubblicità che nessuna intelligenza artificiale potrà mai replicare. Ecco quello che dobbiamo trasmettere a chi si avvicina alla professione.

Mi piace interrogarmi su queste tematiche nella misura in cui offrono la possibilità di portare il nostro l’intelligenza generativa mi costringa a fare un lavoro diverso tra qualche anno e credo che la maggior parte dei ragazzi e delle ragazze che studiano o lavorano con me non sentano minimamente questa preoccupazione. Il timore più importante è che un certo tipo d’intelligenza artificiale ci tolga lo sguardo dal mondo, ci sottragga cioè la possibilità di leggere la meraviglia del reale, perché tanto me la posso ricostruire a casa, su un semplice monitor. E invece dobbiamo essere consapevoli del fatto che c’è bellezza, meraviglia, incanto là fuori, che è quello che permette a chi fa arte di usare a pieno titolo la parola creatività.

E la vera tensione, la vera paura che ho, non è quella professionale: è quella che le generazioni future perdano un’opportunità che noi abbiamo avuto, perché non sanno come guardare il mondo. Stiamo addestrando l’intelligenza artificiale e perdiamo di vista la possibilità di farlo con le generazioni più giovani, per guardare il reale, relazionarsi al mondo con spirito critico. Se ChatGPT scrive meglio di me non è colpa di ChatGPT, è colpa del mio scrivere. In questo momento la partita più importante su questi temi si sta giocando nelle industrie creative, quelle della pubblicità, del cinema, della musica.

E io non riesco proprio ad accettarlo e ad accettare una scelta produttiva che si piega in maniera così meschina alle logiche del profitto. Provo a spiegarmi: io credo che ChatGPT entri dentro queste industrie con una forza devastante, per permettere maggiori marginalità rispetto alle basse manovalanze presenti all’interno degli organici, per esempio nelle agenzie di comunicazione digitale.

Ma prima di gridare alla catastrofe, forse paradossalmente, potremmo trasformare questo processo in una straordinaria opportunità per tornare a investire sulla creatività, per tornare a farci pagare la creatività, smettendola di fare le consulenze al ribasso sulle strategie e a svendere la pubblicità, la creatività pubblicitaria, perché tanto c’è sempre qualcuno che la farà pagare meno. Abitiamo nel Paese dove gli spot pubblicitari venivano girati dai maestri del cinema, dove alcuni titoli venivano scritti da poeti contemporanei. Siamo il Paese di Depero e Bozzetto. Qui ci siamo inventati l’Economia Civile nel 1750 a Napoli con il professor Genovesi. Siamo il Paese dove chi faceva impresa erano i Branca, i Crespi, i Ferrero, i Pirelli, gente che metteva le biblioteche dentro le fabbriche.

L’economia mediterranea non ha nulla da invidiare a quella d’oltreoceano che arriva a indottrinarci con le teorie sui purpose, quando da queste parti avevamo gli Olivetti a disegnare il nostro futuro. Noi dobbiamo tornare a fare impresa guardando al medio e al lungo periodo. L’intelligenza artificiale, in questo senso, può diventare un alleato formidabile nel costruire modelli predittivi. Ma non credo che possa mai, mai, mettersi al posto di chi scrive, e non possa mai mettersi al posto di chi gira, di chi filma, di chi fa musica, poesia, letteratura, avendo dentro una tensione espressiva. Altrimenti vincerà Netflix che deve sparare fuori trecento serie tv all’anno e spera di farle scrivere direttamente da intelligenze generative.

Ma è questo il mondo in cui vogliamo abitare? Normare l’intelligenza artificiale vuol dire in primo luogo studiarla, capire quali sono i diritti da proteggere. Per questo quando il nostro Garante ha messo le mani su ChatGPT, l’ha fatto per dare attenzione soprattutto ai minori, per stabilire delle priorità. Io penso che questi siano i segnali più importanti da dare in questo momento. Sono segnali politici, di sensibilità, di attenzione e di empatia.

Scegliere un giurista, Giuliano Amato, come primo Presidente della Commissione Algoritmi, un organo istituito per esaminare le implicazioni dell’intelligenza artificiale sul giornalismo e sull’editoria, non significa usarlo come mentore illuminante, significa dire al mondo che noi da queste parti vogliamo guardare questo fenomeno prima di tutto dal punto di vista dei diritti delle persone e di chi produce contenuti per questo mondo. Perché ogni volta che qualsiasi artista si esprime, usa la propria arte per offrire una parte di sé giocando una partita intellettuale: sta dicendo dove sta, cosa sente, quello che prova, come soffre, ama, e quello in cui crede. È questa la componente che in questo momento, secondo me, dobbiamo tutelare. In questo senso possiamo non temere l’intelligenza artificiale, va studiata, analizzata e poi normata, perché il rischio più grande è che replichi i bias, le diseguaglianze, i razzismi, gli stereotipi di cui la stiamo nutrendo. Tempo fa è stato messo in circolazione un prompt in cui si chiedeva a un’intelligenza artificiale di generare l’immagine di una modella da utilizzare in un servizio fotografico per un brand di cosmetica.

Il risultato? La classica modella 90/60/90, bionda, caucasica. Esattamente lo stereotipo narrativo che da anni alcune marche dell’industria della bellezza stanno provando a combattere, perché quel tipo di linguaggio pubblicitario ha minacciato autostima e salute mentale di tantissime ragazzine in tutto il mondo. Parecchie aziende hanno preso posizione per fare in modo che questi luoghi comuni escano finalmente di scena, affinché soprattutto le donne più giovani non si sentano più inadeguate rispetto alle immagini pubblicitarie, alle copertine dei periodici, ai riferimenti di un certo tipo di giornalismo televisivo o di un certo tipo di presenza all’interno dei varietà.

iabichino
Si ringrazia Apogeo per la foto

Ecco, l’intelligenza artificiale che si nutre di questi bias probabilmente potrebbe finire per replicare all’infinito questo tipo di “modellizzazione” del reale. Il nostro compito, in questo momento, è tenere gli occhi ben aperti per sorvegliare gli studi, gli avanzamenti, gli addestramenti che vengono fatti di queste intelligenze. Dall’altra parte, però, non dobbiamo perdere lo sguardo sul mondo. Se poi mi viene chiesto come si fa ad essere creativi, come si fa a spiegarlo alla Generazione Z o ai millennial, io credo che sia molto complicato rispondere, e posso parlare solo e soltanto per esperienza personale: oggi che ho la maturità e la consapevolezza per potermi anche permettere il lusso di scegliere a chi prestare il mio scrivere, desidero alzare lo sguardo verso l’alto.

Lo dico davvero, senza falsa modestia, perché noi adulti abbiamo la responsabilità di provare a diventare modelli di riferimento per i creativi e per le creative più giovani, per le persone che vogliono fare questo mestiere finalmente libere dalla fascinazione dello star system. La pubblicità è stata vista per anni come una specie di fabbrica delle meraviglie. Ed è vero che è un mestiere bellissimo, un mestiere che arriva dentro la vita delle persone e che comunica direttamente con loro. Il modo migliore per usarlo è parlare con il proprio pubblico per riflettere insieme su come migliorare il proprio piccolo pezzettino di mondo, purché ci si liberi dai batteri e dalle tossine che negli anni abbiamo accumulato perché pensavamo di essere in un’industria dello spettacolo.

Vogliono le nostre idee? Che ce le paghino, altrimenti ChatGPT andrà benissimo. Perdonatemi il tono severo, diretto, ma sincero e soprattutto confortato dalle mie esperienze più recenti. Sono passati più di quindici anni da Invertising, allora quel libro sembrava l’opera di un ingenuo che pensava che la pubblicità potesse cambiare il mondo. Ecco, forse non eravamo così fuori strada. Il nostro lavoro può onorare chi ha fatto e sta facendo impresa in maniera illuminata in questo Paese. Proteggendo le persone, le comunità, i territori, e la scrittura pubblicitaria può essere messa al servizio del cambiamento, purché non sia gratuitamente seduttiva o manipolatoria.

Purché abbia sempre come unico destinatario l’intelligenza delle proprie interlocuzioni e il loro spirito critico. Infine, c’è un tema che mi è sempre stato molto a cuore e che continuo a sostenere, per quanto faticoso sia, soprattutto nei momenti di congiuntura sfavorevoli, tra recessioni, inflazioni, eccetera: quello che manca a tanta impresa (e manca tantissimo anche alla politica) è provare a guardare al medio o al lungo periodo.

Mi relaziono molto con imprenditori e imprenditrici, manager, CEO, CMO, e vedo che si riescono a fare progetti di un certo tipo soltanto quando si guarda a quello che sarà l’azienda tra cinque, dieci, quindici anni. Solo allora si può disegnare il tuo stare sul mercato in un certo modo. Guardare al di là del trimestre oggi è la sfida più importante per chi si cimenta con il mondo del marketing e della comunicazione d’impresa. Ma guardare a un orizzonte più lungo è una riflessione che anche la politica non riesce più a fare, dato che vive dentro una campagna elettorale infinita. Le scelte che vengono fatte possono rivolgersi unicamente al prossimo voto, che sia un’elezione per il Parlamento europeo, una regionale o un’amministrativa, sono sempre e soltanto dichiarazioni elettorali.

Nel breve periodo non interessa fare un programma di sviluppo per il Paese, perché se ci fosse realmente un programma di sviluppo per l’Italia, in questo momento tutte le energie andrebbero nella scuola. Ma entriamo nel merito di queste pagine che sono state messe insieme per provare a leggere tra le righe di una carriera che si deve destreggiare tra bolle speculative, crisi globali, pandemie e nuove guerre, e che, alla vigilia dell’ennesima rivoluzione tecnologica, prova a unire qualche puntino per non perdere del tutto quel coefficiente di umanità ancora indispensabile per fare questo lavoro.

Ed è proprio per unire i puntini che in queste pagine ho voluto riprendere alcuni brani, interviste o podcast che recentemente mi hanno aiutato a mettere a fuoco i temi di cui scrivo qui. Ho preso in prestito il linguaggio del cinema perché questa modalità di racconto è sempre più presente nel mio lavoro di ogni giorno, quando vengo chiamato non solo a scrivere, ma anche a dirigere le diverse forze in campo all’interno di una strategia di comunicazione. E sempre più spesso la richiesta della singola campagna pubblicitaria è accompagnata da una riflessione a lungo termine che riposiziona il linguaggio di marca, riflette sui valori identitari e scrive parole nuove all’interno dei diversi dispositivi raggiungibili dai budget a disposizione.

Quindi, questa è la storia. Spero vi piaccia. Il protagonista non è il sottoscritto, perché lo scrivere è sempre al servizio del brand. Con l’antagonista abbiamo già fatto conoscenza, anche se vedremo più avanti che non è l’unico elefante nella stanza. Non ci resta che andare a conoscere le comparse e scoprire le ambientazioni, incontrare il pubblico e andare dietro le quinte, e poi concludere leggendo attentamente anche i titoli di coda. Sarà come riavvolgere il nastro di un film che mi ha proiettato fino a qui e che oggi voglio rivedere insieme a chi crede ancora nel potere delle parole. L’intento di questo scrivere sarà maieutico, per ispirare e motivare chiunque abbia a che fare con la comunicazione d’impresa a compiere questo lavoro con l’importanza e la dignità che merita.

Credo che la famigerata CSR, la Corporate Social Responsibility, debba sempre più innervarsi all’interno di tutte le funzioni aziendali, nessuna esclusa, fino a immergersi naturalmente nelle strategie di marketing e comunicazione, nelle vendite, nelle risorse umane, nella ricerca e sviluppo, senza lasciar fuori neanche l’ultima persona assunta in azienda. E questo può compiersi solo e soltanto se si vuole lasciare un segno con il proprio lavoro, imparando a usare le parole in modo diverso. Non è solo scrivere, è guardare il mondo con occhi nuovi, come fossimo alla regia di un film con un finale migliore di quello che si prospetta ora, contaminato dalle storture di un mercato sempre più insostenibile.

Spoiler: si può fare.