La ricetta della coach startupper: «La chiave del successo sul lavoro e nella vita? Saper gestire le relazioni»

La ricetta della coach startupper: «La chiave del successo sul lavoro e nella vita? Saper gestire le relazioni»

Recentemente ha fondato ReYou Global, servizio di coaching specializzato in leadership per l’era AI, con un focus particolare sull’ecosistema startup, ma il suo background è imprenditoriale. Paola Albanese per 15 anni ha guidato un’agenzia di marketing digitale che ha, poi, venduto a una multinazionale francese. Ma di quell’esperienza ne ha sempre fatto tesoro: le ha permesso di riconoscere le dinamiche e le difficoltà tipiche di chi guida aziende in crescita. Oggi la sua attività di coaching si focalizza sulla dimensione umana e psicologica della leadership nelle startup. «Aiuto founder ed executive a navigare le sfide emotive e identitarie della crescita: la relazione umana con gli investitori, la gestione della pressione, il passaggio da “founder visionario” a “CEO che guida un’azienda”». L’intervista della nuova puntata del nostro speciale dedicato all’evoluzione del martech e dei centri media.

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Paola Albanese, ReYou Global

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ReYou Global come lavora con gli imprenditori?
ReYou Global è un servizio di executive coaching specializzato in contesti con forte accelerazione tech e AI rivolto a imprenditori, founder di startup e manager che guidano trasformazioni rapide nelle aziende. Mi sono specializzata in professional coaching dopo aver intrapreso un percorso imprenditoriale nel mondo digitale. Ho co-fondato Sembox, una delle principali agenzie di marketing digitale, portandola fino all’acquisizione da parte di Eskimoz, multinazionale francese. Per questo, ho vissuto in prima persona le sfide dei founder: business plan, crescita del team, relazioni con investitori, negoziazioni complesse, exit.

Che differenza c’è tra coaching e consulenza?
Un consulente ti dice cosa fare: “Usa questo template”, “Ecco come strutturare la comunicazione” e fornisce soluzioni standard mentre un coach ti aiuta a scoprire come essere: “Come vuoi presentarti autenticamente agli stakeholders?”, “Come gestisci al meglio una conversazione complessa?”. Lavora sulla crescita del leader, costruisce autonomia duratura.

Quali sono i principali gap che ravvedi in questo segmento di mercato, se ci sono?
Esistono centinaia di corsi e consulenze su “come attrarre finanziamenti” o “come scrivere un pitch”. Ma nessuno insegna ai founder come essere in quelle relazioni: gestire la pressione, costruire credibilità autentica, mantenere resilienza quando le cose non vanno al meglio. Tuttavia, gli investitori esperti valutano in misura uguale “il progetto- che cosa fai” (50%) e “il founder- chi sei” (50%): intelligenza emotiva, gestione di incertezza, capacità di comunicare con stakeholder, resilienza. Per questo è fondamentale allenare le caratteristiche personali che fanno la differenza in un percorso imprenditoriale.

Come lavori con i tuoi clienti, quindi?
Su sfide personali specifiche come: gestire la relazione con gli stakeholders; comunicare un cambio di rotta mantenendo fiducia del board; navigare la transizione da “esperto di prodotto” a “leader di organizzazione”; affrontare richiesta di secondo round di finanziamento senza risultati sperati; gestire dinamiche di crescita rapida del team. Questi percorsi sono affiancati da workshop collettivi su esercizi pratici, case study reali, gestione degli aspetti umani nelle relazioni con gli investitori. I founder si allenano a gestire scenari concreti e complessi di comunicazione.

Quale è il tuo obiettivo finale?
Sviluppare capacità durature, costruire chiarezza su chi vuoi essere come leader, capacità di comunicare sotto pressione, autenticità strategica nelle relazioni. Lavoro anche con le realtà che supportano i founder: fondi di investimento che vogliono aumentare il success rate dei loro portfolio, incubatori e acceleratori che cercano di differenziare la loro valore oltre il capitale, corporate innovation hub che vivono il coaching come risorsa da mettere a fattore comune nell’ecosistema innovazione. Per queste realtà, il coaching non è un “benefit accessorio” ma un investimento strategico. Founder più maturi psicologicamente prendono decisioni migliori, scalano più efficacemente, gestiscono meglio le relazioni con stakeholder. Il risultato: exit di maggior successo, meno fallimenti evitabili, portfolio più sano.

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Quale approccio ha con l’AI? Come la utilizzi e con quali scopi?
L’AI non rende il coaching obsoleto, lo rende più necessario che mai. Allo stesso tempo, ha creato un paradosso: ha abbassato drasticamente le barriere tecniche. Infatti, puoi costruire prodotti complessi velocemente, automatizzare processi, scalare, analizzare dati, generare strategie ma ha anche reso sempre più necessario il recupero della dimensione umana della leadership.

Quando l’AI può scrivere codice e produrre insight strategici, cosa fa davvero la differenza?
Le capacità profondamente umane: ispirare un team; costruire fiducia con gli investitori; prendere decisioni difficili nell’incertezza; comunicare sotto pressione; gestire l’ansia propria e degli altri; mantenere autenticità in relazioni complesse. Queste competenze non possono essere replicate dall’AI, diventano l’unica vera fonte di vantaggio competitivo sostenibile. Per me l’AI è uno strumento operativo per tutto ciò che non richiede dimensione relazionale ed emotiva e in particolare nella preparazione di contenuti workshop, nella ricerca di trend di settore, contesti specifici clienti, preparazione pre-sessione, nella sintesi di sessioni, action plan documentati, materiali di support. Nell’era dell’AI, il coaching per founder non è un lusso ma una necessità strategica. La tecnologia ha spostato tutto il peso della differenziazione sulla persona.

Come differenzi le tue strategie rispetto ai differenti target?
La metodologia di lavoro rimane coerente, ma l’applicazione varia significativamente in base al target e momento del percorso dell’azienda. Sostanzialmente prevedo 3 tipologie di servizio:

I workshop sono particolarmente efficaci per fare pratica e prepararsi a situazioni realistiche di relazione con gli investitori, con il team, ecc.

In che modo aiuti founder ed executive a navigare le sfide emotive e identitarie della crescita?
Lavoro sulle sfide concrete che i founder affrontano ogni giorno, ma per le quali raramente hanno uno spazio dedicato di riflessione, lontano dal caos operativo. In particolare per prendere decisioni rilevanti in condizioni di incertezza e creare uno spazio dove esplorare e valutare diverse prospettive di azione immaginando scenari e rispondendo a domande come: “Cosa succede se faccio A?” “Come mi sentirò tra sei mesi?” “Quali sono i miei veri criteri di scelta?”. Gestisco anche gli investitori quando le cose vanno male così come dinamiche complesse con co-founder e team.

Quanto conta davvero l’aspetto psicologico nella crescita di una promettente realtà imprenditoriale?
Gli investitori esperti valutano in misura uguale progetto (50%) e founder (50%). Ho visto progetti brillanti fallire non per mancanza di competenze tecniche, ma perché il founder non era pronto psicologicamente. E progetti mediocri avere successo perché il founder aveva resilienza interiore per continuare quando tutto andava male. L’aspetto psicologico non è “nice to have” per quando hai tempo ma è il terreno della partita principale. I founder che lo capiscono prima, che investono consapevolmente sul proprio sviluppo come leader, hanno un vantaggio competitivo enorme su quelli che credono basti il prodotto giusto. Nell’evoluzione tecnologica enorme che stiamo vivendo, dove l’AI democratizza competenze tecniche, l’unica differenziazione sostenibile è la qualità umana della tua leadership. E quella si costruisce, non si improvvisa.