La rivincita dell’Italia dei luoghi, dove territori e comunità sono il vero motore dello sviluppo

La rivincita dell’Italia dei luoghi, dove territori e comunità sono il vero motore dello sviluppo

Quali sfide attendono la società di domani? Quali sono i rischi e quali le possibilità offerte dallo sviluppo tecnologico? Per la rubrica “Futuro da sfogliare” un estratto del libro Il potere dei luoghi di Marco Percoco, edito da Egea.

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Qualche anno fa Thomas Friedman, opinionista del New York Times, sostenne che la riduzione significativa dei costi di trasporto e di comunicazione avrebbe reso il mondo piatto. Ovvero, un mondo in cui la distanza diventa quasi ininfluente grazie agli straordinari mezzi di comunicazione, e nel quale perciò la decisione di dove vivere, dove lavorare, dove fare impresa dovrebbe essere irrilevante. In realtà, lo scenario economico che ci si para dinanzi agli occhi tutti i giorni è radicalmente diverso poiché alcuni luoghi, soprattutto alcune città, diventano sempre più grandi e sempre più importanti. Insomma, sembrerebbe che le conclusioni di Friedman siano diametralmente opposte.

C’è da dire che da molto tempo gli economisti hanno compreso quali sono gli effetti della geografia sulla concentrazione delle attività produttive. Krugman, premio Nobel per l’economia nel 2013, riprendendo e rielaborando conoscenze e idee già presenti nel pensiero geografico-economico sin dal XIX secolo, aveva previsto che la riduzione drammatica dei costi di trasporto avrebbe prodotto una polarizzazione dello sviluppo e non una sua diffusione equa. Immaginiamo, infatti, una situazione in cui i costi di trasporto siano molto elevati, addirittura proibitivi: un’azienda che vorrà servire due diversi mercati dovrà necessariamente avere due diversi impianti produttivi, ognuno relativamente vicino al mercato verso cui deve inviare i suoi prodotti; immaginiamo, ora, che i costi di trasporto si riducano drammaticamente: in tali condizioni, e in presenza di economie di scala, quell’impresa troverà conveniente localizzare la produzione in un unico sito, probabilmente nella località dove riesce a ottenere una produttività, e quindi dei profitti, maggiori. Il risultato dell’avvicinamento di questi due mercati è quindi molto diverso rispetto a quanto immaginato da Friedman: un territorio perde produzione (e perciò posti di lavoro) a favore di un altro, creando di conseguenza disparità territoriali.

Il potere dei luoghi 2

La geografia e l’economia si sono incontrate, scontrate, integrate da sempre o almeno da quando il pensiero moderno occidentale s’è originato. Dai problemi legati all’approvvigionamento di risorse naturali per Adam Smith, alla produttività dell’agricoltura secondo Ricardo, per arrivare alla teoria della localizzazione ottimale di Veblen, sono tutti esempi, forse i più celebri, di questioni economiche rilevanti da un punto di vista geografico. Bisogna però riconoscere che è solo con Krugman che si è compiuta la coerente integrazione tra la scienza economica e quella geografica, che ha portato più di recente, generalizzando un’intuizione di Alonso, alla teoria dell’equilibrio economico spaziale, ovvero il contemporaneo ganglio vitale che guida tutte le elaborazioni teoriche e le evidenze empiriche degli ultimi due decenni.

La teoria in questione, cuore della moderna economia spaziale, postula l’indifferenza degli individui rispetto al luogo in cui decidono di vivere; come dire: in equilibrio, l’utilità deve essere la medesima su uno spazio omogeneo. L’idea alla base di questa struttura concettuale è che gli individui sceglierebbero la città d’elezione in base al salario che potrebbero ottenervi e il livello dei prezzi delle case. Idealmente, un luogo con salari elevati e prezzi bassi dovrebbe essere particolarmente attrattivo, così che flussi ingenti di immigrati dovrebbero riversarvisi, generando un aumento dell’offerta di lavoro e della domanda di immobili che a loro volta comporterebbero una compressione dei salari e una pressione al rialzo dei prezzi delle case. Il modello dell’equilibrio economico spaziale implica pertanto un continuo movimento della popolazione in presenza di eventuali differenze di salario e di prezzi tra città. Ed è proprio ciò che è avvenuto negli Stati Uniti per decenni, con i flussi migratori che andavano a compensare eventuali crisi economiche locali, al netto di alcune caratteristiche intrinseche dei luoghi.

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Marco Percoco

New York non è il Kentucky rurale per una serie di ragioni non sempre e non facilmente monetizzabili. Vivere a New York rispetto all’America rurale significa poter usufruire di beni culturali di pregio, entrare in contatto con persone di grande valore, vivere in un ambiente socialmente gratificante, avere accesso a servizi sanitari ed educativi di qualità (più) elevata. Questa vasta congerie di elementi, qui riportati a titolo di mero esempio, fanno sì che, anche per garantire l’equilibrio, i lavoratori sarebbero disposti a vivere in una località con salari relativamente bassi e prezzi elevati pur di beneficiare di quelle che vengono comunemente chiamate amenities.

Il modello dell’equilibrio economico spaziale è indubbiamente utile per razionalizzare alcuni fenomeni oltre che per guidare alcune indicazioni di politica economica – non sempre convincenti, in verità. A pensarci bene, il modello che aspira a integrare i principi economici con quelli geografici finisce col negare qualsiasi rilevanza alla stessa geografia, in nome di una sostanziale (e forse ricercata) omogeneità dello spazio. Lo stato di disagio di un individuo è ciò che lo guiderebbe verso nuovi lidi pur di sfruttare a proprio vantaggio differenziali di natura prettamente economica. Non c’è posto, in questo modello d’analisi, per i sentimenti di una sorta di homo socialis, per il suo senso di appartenenza a un luogo e alle persone che lo vivono, sensazioni di tale rilevanza da agire da potenti forze centripete in grado di portare il sistema in una perdurante condizione di disequilibrio.

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Questo libretto s’origina insomma dalla convinzione che la geografia sia in grado di spiegare (e in alcuni casi di prevedere) fenomeni che oggi si impongono per la loro rilevanza e pervasività. Il punto di vista di questa piccola esplorazione è quello del fallimento dell’economia spaziale e del suo equilibrio a favore di un approccio geografico volto soprattutto a comprendere le crescenti diseguaglianze tra classi, tra città e zone interne, tra regioni, nella convinzione che le migrazioni non possono essere la soluzione a tutte le questioni. In base a questa visione, se gli individui non stanno bene in un posto (perché, magari, c’è alta disoccupazione o per i bassi salari), se ne possono pure andare. Qualunque intervento volto ad aiutarli in quei luoghi sarebbe inefficace: meglio dare incentivi per emigrare altrove. Questa posizione implica l’abbandono delle periferie, delle regioni difficili, dell’Africa: una posizione tanto estrema quanto inutile. C’è sempre una ragione per cui alcuni luoghi sono meno sviluppati di altri ed è questa che va aggredita, mentre la semplice fuga non può assurgere a strategia di riequilibrio.

I luoghi non sono contenitori, scatole all’interno delle quali le vite scorrono divise tra lavoro e tempo libero. L’homo oeconomicus non valuta sentimenti quali l’identità territoriale, dunque, la sensazione di appartenere a luoghi specifici. Lo sviluppo dei territori non può contemplare esclusivamente, in un’ottica riduzionistica, il travaso di popolazione da un luogo a un altro, giocando su differenziali salariali e di possibilità occupazionali.

Ma non è solo qui che s’annida il problema logico di una politica del genere e non è solo un problema sostanzialmente ideologico, di valutazione e apprezzamento di beni e principi solitamente condivisi (tranne che in alcuni ambienti ristretti e influenti dell’economia). La visione dell’equilibrio spaziale più radicale non convince anche perché ipotizza implicitamente l’omogeneità dei lavoratori. In altri termini, pensare di risolvere, per esempio, i divari di reddito tra Nord e Sud semplicemente spostando manodopera da Sud a Nord implica la convinzione che l’assenza di quei lavoratori dalle economie meridionali non comporti effetti negativi per quei territori. Sappiamo invece che la realtà è molto più complessa e che oggi sono soprattutto i laureati a emigrare dalle regioni meridionali, una condizione che genera ulteriori disparità in termini di produttività. L’Italia è un paese ove massicce migrazioni interregionali sono presenti da oltre settant’anni, non si sono mai fermate, eppure i divari di reddito tra le varie aree non si sono mai attenuati. Pensare di risolvere gli effetti negativi che la globalizzazione ha su alcuni luoghi attraverso l’abbandono di quei luoghi stessi mi sembra sia una pessima idea.