«Una donna in Europa vede mediamente sette ginecologi prima di trovare quello giusto. E quando ha un problema, un dolore, la diagnosi arriva con otto anni di ritardo. La situazione sta un po’ migliorando, ma diagnosticare è senz’altro complesso. Anche perché sul corpo femminile non c’è mai stata una grande ricerca medica e scientifica». Gaia Salizzoni, originaria di Trento e residente oggi a Berlino, ha fondato Hale, di cui è Ceo, insieme a Vittoria Brolis e nel mettere a terra questa idea di piattaforma in grado di fornire accesso alle donne che fanno i conti con condizioni ginecologiche di dolore è partita dalla propria esperienza.
«Non è solo mio il problema, è un problema che impatta una donna su quattro. Endometriosi, vulvodinia, dolore sessuale o mestruale cronico». In questa nuova puntata della rubrica Italiani dell’altro mondo parliamo di salute e di accesso alle cure, così come di cultura e necessità di affrontare tematiche senza tabù. Ma partiamo da qualche numero che abbiamo raccolto prima di conoscere la storia di Hale.

I numeri del dolore femminile
Oltre 1,8 milioni di donne in Italia soffrono di endometriosi. Secondo i dati del Policlinico di Milano la vulvodinia colpisce circa il 5% della popolazione femminile, anche se le stime potrebbero spingersi al 12%. Si tratta di fenomeni di cui non sempre le persone riescono a parlare in maniera agevole. In alcuni casi non se ne riesce a parlare neppure con i partner, il che rende ancora più difficile affrontare la questione da uno specialista. Ma, allargando lo sguardo, negli ultimi anni si è parlato anche di violenza ostetrica, che ci porta a un altro tema, ossia quello della preparazione del personale medico-ospedaliero a trattare le pazienti.
Stando all’Osservatorio sulla Violenza Ostetrica Italia il 21% delle madri dichiara di aver subito violenza ostetrica durante il parto; il 33% non si è sentito assistito nel corso del travaglio, del parto e nelle ore immediatamente successive alla nascita del figlio. Grazie ai social e a campagne di sensibilizzazione questi temi sono usciti dal cono d’ombra. Per una startup come Hale, attiva per ora soltanto in Italia, c’è un lavoro anche culturale da svolgere.
«Non era il mio l’arte diplomatica: mi piace fare le cose, meno discuterne». Gaia Salizzoni ha intrapreso quello che ha definito un percorso standard tra università e mondo del lavoro. Ha frequentato Scienze Politiche cogliendo l’opportunità di studiare e dare esami all’estero, tra Argentina e Olanda. Fondare una startup che si occupasse di salute femminile non è mai stata nei suoi radar, ma il mondo delle aziende lo ha conosciuto presto.

Una startup per risolvere il problema di molte
«Dopo l’università sono andata a Madrid per lavorare in un centro di ricerca che si occupa di corruzione e trasparenza nelle aziende quotate». Un passaggio che l’ha poi spinta a tornare all’università per frequentare un master tra l’Università di Trento e la Sant’Anna di Pisa in management e innovazione. «Quello è stato il momento in cui ho capito che, come dicono gli inglesi, il mondo delle startup è il mio cup of tea».
All’inizio della propria carriera lavorativa, così ci ha raccontato Salizzoni, «non ho mai scelto il mio posto di lavoro in base all’industry, mi interessavano le persone e le opportunità di crescita». A Monaco di Baviera ha lavorato nel mondo delivery in Bella & Bona e poi è tornata in Italia per un’occasione in NeN, startup del settore energia. «Pensando al periodo della magistrale mi sono pentita di non aver frequentato i corsi relativi al mondo salute».
Nel 2022 ha infatti fondato Hale insieme a Vittoria Brolis e lo ha fatto a Berlino. «Abbiamo una rete di professionisti che selezioniamo e formiamo. Sono integrati nella piattaforma, sia online sia in presenza. Per ora soltanto in Italia, poi andremo in Spagna. Metà del team è a Berlino perché io e la mia socia volevamo lanciare sul mercato tedesco. Ma non è un mercato giusto per il nostro prodotto. Così abbiamo pivotato». Berlino, come ci è capitato più volte di raccontare, è una città punto di riferimento in Europa per l’attrazione di talenti, così come per la presenza di eventi, fondi VC e acceleratori.

Empatia in corsia?
Ma perché queste due imprenditrici hanno visto un vuoto, un bisogno nel mercato, quando si tratta di cure ginecologiche? «Una donna con sintomi, che non riesce a capire, si ritrova a vivere in condizioni che la invalidano. Spesso i ginecologi non riescono a capirli e in alcuni casi ignorano o minimizzano». Nel corso della nostra intervista alla founder di Hale è emerso un problema di fondo, relativo all’ascolto e alla capacità di trovare una diagnosi, ma ci sono anche buone basi di partenza in Italia rispetto ad altri Paesi.
«In Italia l’accesso e la cultura di prevenzione a cure ginecologiche standard ci sono e funzionano. Per fare un paragone, in Inghilterra le donne vanno molto meno dal proprio medico. Ma per i dolori cronici c’è un tabù. Ecco perché puntiamo tantissimo su un brand capace di parlare di questi argomenti con empatia». Un altro nodo riguarda i costi e i tempi per le cure. «La maggior parte dei ginecologi non sono preparati su queste tematiche, i veri esperti si contano sulle dita di due mani. Ma i prezzi sono alti, con lunghe attese».

Rimaniamo sulla questione culturale, su cui si dovrebbe fare di più. Nelle ultime settimane si è tornati a parlare – con i soliti toni allarmistici e ideologici – dell’opportunità dell’educazione sessuale e affettiva nelle scuole. «Il punto non è la sessualità come rapporto sessuale, ma come questione relazionale affettiva. E non dimentichiamoci che esiste pure la sessualità individuale». Non ci sono dubbi sul fatto che aver delegato l’educazione finora alle famiglie e alla rete (dunque alla pornografia) non ha prodotto grandi risultati.
Come lavora la startup Hale
Dopo la pandemia la salute ha raccolto un crescente interesse da parte degli investitori. Ma trattandosi di un ambiente – quello dei VC – prevalentemente maschile ci sono freni ai finanziamenti su determinati progetti? «È uno scoglio iniziale, ma non impedisce il successo di quel che stiamo facendo. Il problema non è la salute femminile, ma la salute punto».

Hale è presente oggi in diverse città d’Italia e mette in contatto pazienti con una rete di 50 ginecologi, a cui si affiancano pure fisioterapiste, ostetriche, nutrizioniste e psicologi. «Nel selezionarli ci basiamo su tre elementi: competenza clinica, competenza digitale ed empatia». Non è raro ascoltare storie di disservizio, maleducazione, mancate cure nell’ambito della sanità. Nella motivazione può senz’altro comparire una situazione sotto organico in molti ospedali, che stressa e rende difficile il lavoro per il personale stesso. Eppure per chi fa certi mestieri empatia e gentilezza dovrebbero essere innati.
«Io credo nella sanità pubblica e nell’accesso universale alla salute – ha premesso la Ceo di Hale -. Ma i sistemi sono in sofferenza. Il privato in questo momento si sta muovendo velocemente per colmare i gap. Ed è giusto così». In prospettiva potrebbero formarsi realtà più grandi, nate nel mondo startup, per proporsi come piattaforme di servizi nella salute? «Nei prossimi cinque anni ci sarà un consolidamento con acquisizioni, merger. E il ruolo delle assicurazioni sarà molto importante».

La Germania non è tutta in difesa
Finora Hale ha raccolto 750mila euro e sta per aprire il seed round. La presenza del team a Berlino ci permette di fare una domanda rispetto all’ecosistema della capitale tedesca, dove diverse testimonianze riportano di un’attenzione crescente sui temi della difesa, con tanto di poster per invogliare le persone all’arruolamento nell’esercito. «Li ho visti anche io, ma non direi che l’ecosistema di Berlino si stia spostando fortemente su queste cose. E poi molte cose sono cambiate se penso al boom di qualche anno fa nel settore delivery con casi tipo Gorillas».
L’interesse sulla sanità digitale è ad oggi una materia principalmente nordica, come dimostra peraltro la presenza di Daniel Ek, founder di Spotify, con la sua Neko Health attiva con centri tra Stoccolma e Londra. «In Italia l’ecosistema è meno maturo, senz’altro. Ma se devo parlare di una macro differenza è che a Berlino sono soprattutto le scaleup, non le startup, le vere protagoniste».