Sessant’anni fa nasceva il primo personal computer. Ed era italiano. Inventato da Olivetti “quasi in clandestinità”

Sessant’anni fa nasceva il primo personal computer. Ed era italiano. Inventato da Olivetti “quasi in clandestinità”

New York, ottobre 1965. Un grande stand a forma semicircolare, in un’immensa fiera internazionale. In bella mostra macchine calcolatrici, fatturatrici, macchine da scrivere, impreziosite dal raffinato design made in Italy che caratterizza l’azienda. Che in una saletta riservata espone anche un’altra misteriosa macchina, davvero singolare. Si chiama Olivetti P101. Quel “Uan-Ou-Uan” in inglese suona bene ma non è per questo che il pubblico dopo un po’ trascura il grande stand accalcandosi in quella saletta.

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E’ che quella macchina, esposta su un tavolo, viene presentata come un computer. E i primi visitatori non ci possono credere e cercano il trucco: sicuramente c’è un fascio di cavi nascosto che collega quell’apparecchio, non più grande di una telescrivente, al “vero” computer, grande almeno come un paio di enormi armadi.

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La squadra della P101 Olivetti: Pier Giorgio Perotto, Giovanni De Sandre, Gastone Garziera, Giancarlo Toppi

La storia del primo PC Olivetti

Sono passati sessant’anni da quel leggendario evento a New York, alla grande fiera delle macchine da ufficio BEMA (Business Equipment Manufacturers Association). Quando la Olivetti svelò al mondo il primo personal computer della storia.

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La Olivetti P 101 in una pubblicità dell’epoca

Rievocare la storia della piccola squadra italiana capace sessant’anni fa di quella leggendaria invenzione è un misto di emozioni contrastanti. Ammirazione e orgoglio, per lo straordinario risultato ottenuto da un manipolo di visionari connazionali. Ma pure amarezza, per l’incapacità di valorizzare come meritava quell’eccezionale impresa.

A guidarla era stato un torinese classe 1930, Pier Giorgio Perotto, scomparso nel 2002. Che aveva ricordato in un prezioso libretto  (“P101. Quando l’Italia inventò il computer”, Edizioni di Comunità) un’avventura in cui il modo di pensare contò più della tecnologia. Era iniziata a Pisa, dove Olivetti aveva aperto nel 1955 un laboratorio di ricerche avanzate in collaborazione con l’Università, con ricercatori che a Perotto erano sembrati personaggi di un altro mondo.

Dieci anni prima di molti hippieggianti pionieri della Silicon Valley, quei ricercatori a Pisa, alle spalle esperienze in Inghilterra e Usa, erano eccentrici e trasandati, ostentavano uno stile informale agli antipodi rispetto ai colleghi della fabbrica di Ivrea, più rigidi e burocratici, che li consideravano poco più che inconcludenti farfalloni.

Era stato Adriano Olivetti a capire che si doveva per forza esplorare un territorio nuovo, aprendo già nel 1953 nel Connecticut un piccolo laboratorio che studiava le possibili applicazioni dell’elettronica alle macchine da ufficio.

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Adriano Olivetti

Se l’azienda di Ivrea poteva coniugare innovazione, design, Umanesimo e welfare per i dipendenti, se poteva affiancare a ingegneri e designer geniali pure intellettuali e scrittori, era grazie alla straordinaria redditività dei suoi prodotti. Come la leggendaria Divisuma 24, macchina da calcolo che a fine linea di produzione costava circa 40mila lire e sul mercato era richiestissima al prezzo di 325mila lire.

Un gioiello che permetteva operazioni di calcolo complesse e funzioni “da circuito elettronico”… grazie a pezzettini di lamiera. Merito di un genio autodidatta della meccanica, Natale Capellaro, classe 1902, entrato in fabbrica a 14 anni e cresciuto sino a diventare direttore generale tecnico. Sarebbe stato lui a confessare a Olivetti, dopo l’ultimo ciclo di progettazione, che non si potesse far evolvere ulteriormente quelle straordinarie macchine, ha raccontato in un recente incontro Gastone Garziera, classe 1942, progettista vicentino unico superstite di quel gruppo, in cui era entrato alla dipendenze di Giovanni De Sandre, ingegnere friulano.

Sulla nuova frontiera dell’elettronica, quegli innovatori erano rimasti presto soli, dopo la morte improvvisa di Adriano nel 1960 e quella l’anno dopo, in un incidente stradale, di Mario Tchou, geniale ingegnere italocinese assunto proprio col compito di costituire il gruppo di Pisa.

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Mario Tchou con Roberto Olivetti

Per Olivetti, in crisi finanziaria dopo l’acquisto di Underwood, l’elettronica era un «neo da estirpare», secondo una celebre affermazione, che oggi appare tragicomica, di Vittorio Valletta, alla guida della Fiat che deteneva una quota di azioni della casa di Ivrea e che pose pesanti condizioni per il suo risanamento. E nel 1964, quella divisione che contava 3mila persone e realizzava pure il calcolatore Elea, per molti dirigenti era ancora un «corpo estraneo», di cui liberarsi con un patto con un colosso Usa come General Electric. In un incontro a Phoenix, nel caldo soffocante del deserto dell’Arizona, l’accoglienza per gli italiani era stata gelida.

«Ci fecero capire che l’unico interesse era costituito dall’acquisizione di una base commerciale per distribuire calcolatori progettati a Phoenix, di non attribuire all’Italia alcuna credibilità al di fuori del design», ricordò nelle sue memorie Perotto, che uscì da quell’incontro con funesti presagi sul futuro della divisione elettronica e del gruppo in generale. Lui invece da un paio d’anni sognava una macchina che stesse su una scrivania, offrisse autonomia funzionale e permettesse a chiunque di farla funzionare, seguendo poche semplici istruzioni, mentre i giganteschi computer dell’epoca erano complicati e accessibili solo a programmatori.

Una sfida “culturale”, prima ancora che tecnologica: ribaltare il concetto che fosse l’uomo a doversi adattare a tempi, modalità ed esigenze della macchina. E quanta astuzia, in questa sfida. Il primo passo di Perotto fu quello di rendersi indisponente e odioso nel colloquio con gli americani, ben felici di liberarsi di lui “scaricandolo” alla divisione macchine da calcolo, dove il team lavorò quasi in clandestinità.

Con De Sandre e Garziera, che considerava “bravissimi”, Perotto strinse un patto: punteremo ad ogni costo a un prodotto rivoluzionario. E se microprocessori e memorie a semiconduttore ancora non esistevano, i transistor furono componente cruciale e molti problemi inediti vennero risolti con l’inventiva e congegni meccanici, come l’uso di un filo d’acciaio che Olivetti impiegava per le molle, che si rivelò perfetto.

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Mario Bellini, architetto che realizzò il design della P 101 oggi esposta in diversi musei del mondo

Dopo un lavoro ossessivo, il prototipo di quella macchina con 10 registri di memoria, un facile linguaggio di programmazione, scheda magnetica che funzionava come un floppy disk per registrare dati e programmi, piccola stampante incorporata, era pronto. E poteva stare su una scrivania, con un elegante design di un giovane architetto, Mario Bellini, ammirato negli anni successivi in musei di tutto il mondo… dopo aver scartato (per fortuna!) il progetto di una delle archistar dell’epoca: un parallelepipedo in legno, raffinato ma poco stabile, difetto cui il celebre designer pretendeva di ovviare “facilmente” con una pesante base in piombo!

Il design italiano continuava a incantare. E in un’intervista di qualche anno fa, Bellini, 90 anni lo scorso 1 febbraio, aveva rivelato al Corriere della Sera che negli anni Ottanta per due volte Steve Jobs era andato nel suo studio di Milano per tentare, senza riuscirci, di convincerlo a disegnare i prodotti Apple…

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Gastone Garziera ad un recente evento a Crespi d’Adda ,alle spalle un’immagine di Natale Capellaro

Per il via libera definitivo a Perotto, De Sandre e Garziera serviva però il nulla osta del capo assoluto della divisione. Che dopo i test di calcolo della P 101, rimase in silenzio per un minuto (“ma a me sembrò un’ora!”, ricorda Garziera). Poi disse: «Vedendo funzionare questa macchina mi rendo conto che l’era del calcolo meccanico è finita». Era Natale Capellaro, il genio autodidatta che con la meccanica aveva fatto la fortuna di Olivetti.

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Uno scienziato della NASA al lavoro su una P 101 Olivetti durante la missione Apollo 11 (1969)

Il brevetto della P101, “Program Controlled Elettronic Computer”, fu depositato nel 1965 a nome di P.G.Perotto e Giovanni De Sadre (brevetto US 3.495.222). Nel 1991 Perotto ricevette il premio Leonardo Da Vinci del Museo della Scienza e della Tecnica di Milano per le soluzioni tecnologiche adottate nella P101, in particolare per l’ideazione di una geniale “cartolina magnetica”: nel 1968 qualcosa di “troppo simile” comparve pure nella calcolatrice HP 9100A di Hewlett e Packard, che per la violazione del brevetto sborsò alla casa di Ivrea 900mila dollari di royalties.

La P101 fu prodotta in 44.000 unità, di cui 20.000 nel 1966 per il 90% vendute all’estero, alcune acquistate dalla Nasa per una velocità di calcolo che favorì le operazioni di sbarco sulla Luna della missione Apollo 11.

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Con Gastone Garziera assieme a Damiano Airoldi che nella sede della sua MMN a Trezzo d’Adda ospita un museo dell’informatica con cimeli Olivetti tra cui diverse P101.

Classe 1942, Garziera continua ancor oggi a rievocare in giro per l’Italia quella straordinaria avventura. De Sandre, che firmò con Perotto la registrazione di diversi brevetti, cosa che fruttò a Olivetti 900mila dollari di royalties da parte di HP è scomparso lo scorso aprile. Persona riservata, fa tenerezza rivederlo oggi in un video su YouTube di dieci anni fa, mentre assieme a Garziera svelava a degli studenti i segreti di quella macchina, che ricorda quando l’Italia inventò il personal computer.