La partita è finita, i giocatori dell’Eintracht Francoforte saltano e si abbracciano in quel modo ridicolo che hanno le persone che hanno finito i modi di esprimere la propria gioia. In campo entrano alcuni giornalisti, come gli era permesso fare alla fine delle partite negli anni ’60, quando Eintracht e Rangers si sono incontrate l’ultima volta. Uno si avvicina a Sebastian Rode, il capitano della squadra tedesca, per ricordargli che si sono appena qualificati alla fase a gironi della prossima Champions League. Rode, la mascella solida, i capelli radi e bagnati appiccicati alla testa, il taglio di qualche centimetro impiastricciato di sangue rappreso che Lundstram gli ha aperto con uno dei tacchetti del suo scarpino sopra la fronte all’inizio della partita, si illumina in un sorriso sospeso.
Rode deve compiere 32 anni, ha giocato nelle due più grandi squadre tedesche senza lasciare impronte visibili dopo essere cresciuto proprio nell’Eintracht, che quest’estate gli ha consegnato la fascia di capitano per il suo passato o forse solo per anzianità. Nell’estate del 2014 era stato acquistato a sorpresa dal Bayern Monaco nel pieno dell’era Guardiola, che aveva ricevuto questo regalo inaspettato con un po’ di fastidio, perché se non ti piace un calciatore non puoi semplicemente tornare al negozio con lo scontrino in mano e prenderti qualcosa che ti piace di più. Gli farà giocare 38 partite in due anni, quasi sempre partendo dalla panchina. Nel marzo del 2016, poco prima di andarsene, Rode disse che Guardiola non gli parlava quasi mai: «Così non capisco quale sia il mio ruolo». In uno di quei manuali motivazionali quel momento sarebbe stato il primo passo verso la finale di ieri.
Il riscatto degli scartati nei confronti dell’élite era stato il tema della finale dell’anno scorso, vinta dal Villarreal dei Raul Albiol, dei Gerard Moreno, dei Dani Parejo contro un Manchester United quasi annoiato di dover partecipare a una competizione che non sentiva alla sua altezza. La squadra di Emery, a sua volta espulso e deriso dai top club europei, che si vendica di chi non l’aveva considerata all’altezza, uno spirito che l’ha spinta in fondo anche in questa stagione europea. Ieri, invece, non c’era voglia di riscatto, nessuno si sentiva più grande del momento che stava vivendo. Questa finale era un momento per guardarsi indietro, innanzitutto all’incredibile unico precedente tra le due squadre in partite non amichevoli, quella semifinale della Coppa dei Campioni del 1960 finita, tra andata e ritorno, 12-4 per l’Eintracht e che ancora oggi rappresenta la semifinale nella storia della competizione con più gol nel doppio confronto. Fino a ieri, quella era stata la penultima apparizione in Coppa dei Campioni della squadra tedesca. L’ultima era stata la finale persa a Glasgow: 7-3 davanti a quasi 130mila persone contro il Real Madrid di Di Stefano, di Puskas, di “Paco” Gento – quest’ultimo scomparso proprio all’inizio di quest’anno.
Il calcio è ossessionato dai cerchi che si chiudono, dai ritorni, dai parallelismi. A volte le partite di più di 60 anni fa ci sembrano più vicine di quelle giocate l’anno scorso. La stagione europea dei Rangers era cominciata il 3 agosto dell’anno scorso, nel playoff di Champions League contro il Malmoe, perdendo per 4-2 nel doppio confronto. In panchina c’era Steven Gerrard e i Rangers erano una squadra che cercava di controllare lo spazio e il ritmo. Sedici partite dopo è cambiato tutto, sembra passata una vita. In panchina c’è Giovanni van Bronckhorst, che nella sua impresa di mettersi alla testa della nuova generazione di tecnici olandesi ha trasformato i Rangers in una squadra che cerca di surfare sul caos mentre le onde diventano sempre più grandi. La squadra scozzese non arretra di un centimetro di fronte alla sua identità, cerca di recuperare il possesso in alto portando la linea della difesa fino al centrocampo. Nonostante l’Eintracht sugli esterni, con Kostic e Knauff, ha due tra gli animali da transizione più pericolosi di tutta la competizione. Nonostante sia a soli 90 minuti da una coppa europea che non entra in bacheca da esattamente 50 anni, cioè dalla Coppa delle Coppe del 1972.
L’Eintracht sembra più prudente, aspetta con un 5-4-1 dal blocco medio basso che poi altro non è che l’accartocciamento del 3-4-2-1 iniziale, con Kamada e Lindstrom che scendono sugli esterni a fianco dei due mediani. Inevitabilmente nel primo tempo i Rangers tengono palla per la maggior parte del tempo, anche grazie ad alcune rotazioni che gli permettono di eludere facilmente la pressione appena accennata da parte degli avversari. In fase di prima impostazione Lundstram si abbassa alla destra, nello spazio lasciato libero di Tavernier, che sale altissimo da ala pura. Nel frattempo Jack prende il posto di regista per avere un riferimento davanti alla difesa, ma così facendo il centrocampo dei Rangers si svuota. La squadra di van Bronckhorst fa fatica a connettere la difesa con il fronte d’attacco, e quindi la circolazione bassa spesso si risolve con un lancio, spesso un cambio di gioco in diagonale, che parte dai piedi di Lundstram, a destra, e atterra su quelli di Kent, larghissimo a sinistra. L’Eintracht aspetta con la linea a cinque bassa come un alligatore sul pelo dell’acqua: appena la palla cade dal cielo cerca di innescare la transizione in verticale, una tattica saggia con i Rangers così aperti con il pallone. A sinistra, però, Kostic è troppo basso e impegnato a contenere Tavernier, quindi l’Eintracht costruisce soprattutto sulla sua destra. Da lì arriva prima il cross di Sow per Kamada, che entra in area sfruttando il buco difensivo proprio di Lundstram e dopo un doppio dribbling riesce a tirare in scivolata sul corpo di McGregor; e poi la conduzione di Knauff, che sfrutta il timore di Barisic per tirare da dentro l’area da posizione centralissima.
Il gol dell’Eintracht sembra poter arrivare da un momento all’altro, ma questo sport, non lo impariamo mai, ha una sua perversione nel distruggere le aspettative. All’inizio del secondo tempo lunga respinta di testa di Goldson va finalmente a segno, nel modo più Europa League possibile. La palla è alta e lunga, troppo alta e troppo lunga per Sow, che disperatamente cerca di arrivarci di testa sfiorandola all’indietro, ingannando Tuta e lanciando Aribo in porta. Il difensore brasiliano dell’Eintracht, nel tentativo di recuperare, scivola o forse prova a lanciarsi sui pantaloncini del suo avversario, probabilmente entrambe le cose. Non c’è nulla da fare: Aribo arriva davanti a Trapp e dopo essere entrato in area calcia scivolando sul sedere, con un tiro tanto sgonfio quanto imparabile. Aribo è uno dei tanti calciatori espulsi dall’eccellenza della Premier League e finiti in Scozia per dare un senso alla propria carriera. Non è nemmeno un attaccante, se è là è solo per l’indisponibilità di Morelos con cui i Rangers hanno dovuto convivere per tutto il finale di stagione.
A poco più di mezz’ora dalla fine quanti palloni mancano all’Eintracht per dare un senso a tutta la sua stagione? La squadra di Glasner ha chiuso la Bundesliga all’undicesimo posto e la sua ultima vittoria in campionato risale al 13 marzo, un insipido 2-1 col Bochum. Tra quel giorno e ieri, però, ha incomprensibilmente messo in fila tre vittorie consecutive in Europa League con Barcellona e West Ham. Forse è da questi risultati che gli viene la tranquillità di continuare la partita senza isteria, se si esclude la decisione di uscire dal campo di Tuta, che dopo il gol dei Rangers ha finto un infortunio per non dover convivere con la vergogna di rimanere impresso su una finale europea mentre sembra cadere dalle scale. Ogni minuto che passa, però, la pressione sale e l’Eintracht non riesce a segnare nella porta che divide il campo dall’enorme emiciclo bianco che i tifosi tedeschi hanno dipinto sul Sanchez-Pizjuan. Prima Lindstrom a botta sicura, su una palla rimessa miracolosamente in area da un allungo di Knauff, colpisce il petto gigantesco di Bassey – forse il migliore dei suoi. Poi Kamada, su una palla recuperata finalmente in alto dall’Eintracht, manda alto un pallonetto a superare McGregor.
Foto di Arne Dedert/picture alliance via Getty Images.
Rispetto a queste occasioni, il gol arriva in una fessura spazio-temporale difficilmente spiegabile. Su una rimessa laterale a sinistra, di quelle che sembrano più un’opportunità per gli avversari, mentre in pochi aspettano l’ingresso di Hauge, Kostic infila un cross basso tra le gambe Wright, che forse si aspettava un cross alto sul secondo palo. La traiettoria è tagliente come ceramica spezzata e si infila in uno dei tanti momenti di disattenzione di Goldson, che arriva in ritardo all’appuntamento col pallone. Alle sue spalle Borré sta cercando di tenere lontano Bassey con un braccio, impresa già di per sé titanica, e mentre quello quasi lo infila nel terreno nel tentativo di spingerlo, si lancia in una di quelle spaccate che hanno reso famoso Hernan Crespo.
Per tutta la partita Borré aveva faticato a far risalire la sua squadra, resistendo sulla trequarti alla furia fisica di Bassey, pressando l’intera difesa avversaria quasi da solo, riciclando palloni con la pazienza del fedele che sa che il suo momento in questa vita o nell’altra arriverà. Dopo aver segnato, ha fissato i suoi tifosi con aria di sfida con gli occhi strabuzzati, come se non sapesse che farsene di quella liberazione per cui aveva lavorato faticosamente tutti quegli anni, come se la sofferenza l’avesse plasmato a sua immagine e somiglianza. Già provato e scartato dal calcio europeo d’élite, dopo il fallimento all’Atlético Madrid, Borré ha dovuto ricostruirsi una carriera al River Plate, dove ha incontrato Marcelo Gallardo. La scorsa estate ci credevano ormai in così pochi in lui che è rimasto senza contratto. La chiamata dell’Eintracht è arrivata a sorpresa. «Prima della partita ci ho pensato alla mia carriera in Europa, ho avuto momenti difficili», ha dichiarato dopo aver segnato il rigore che ha messo la coppa nelle mani della squadra tedesca. Borré ha 26 anni, il momento in cui una carriera teoricamente entra nel vivo: per lui questa Europa League è un nuovo inizio o un traguardo?
Il calcio taglia e riannoda la sua tela in continuazione, non sai mai dove ti sta portando. Cinque minuti dopo il gol del pareggio di Borré per i Rangers in campo entra Steven Davis, 14 anni dopo aver giocato l’ultima finale europea giocata (e persa, anche quella volta) dalla squadra scozzese. Era il 2008, allora i Rangers giocavano contro lo Zenit San Pietroburgo, arrivato all’apice del progetto di sport washing della Gazprom, Davis aveva 23 anni. Nel momento decisivo entra lui dalla panchina insieme a Sakala, e non Amad Diallo, che poco più di un anno fa passava in pompa magna dall’Atalanta al Manchester United per più di 20 milioni di euro. È il momento in cui a molti sarà venuta in mente la massima resa celebre da True Detective per cui il tempo è un cerchio piatto. È la fase della partita in cui si dice che le squadre aspettano: prima aspettano i supplementari, poi i rigori. In realtà Rangers e Eintracht sembrano sfinite, due pugili senza più guardia che si danno un pugno alla volta sperando che qualcuno vada al tappeto. Nei supplementari ci sono molti tiri dalla distanza, quasi tutti alti: prima Arfield, poi Knauff, infine Hrustic e Kent, tutti arrivano alla conclusione con la postura di chi a mala pena riesce a piegare le gambe.
Al 118′ il momento che ha fatto ritornare la mente di Giovanni van Bronckhorst alla finale dei Mondiali persa ai supplementari contro la Spagna nel 2010 («La più grande delusione che ci possa essere», come ha dichiarato nella conferenza post-partita). Un lancio senza costrutto di Sands viene raccolto sull’ultimo limite della linea di fondo da Roofe e rimesso al centro dell’area. La difesa dell’Eintracht è sfilacciata, dalle retrovie arriva Kent di corsa. L’ala inglese incrocia il pallone ai limiti dell’area piccola ma viene disturbato alle spalle dal ritorno di Jakic. Il tiro esce più centrale di quanto forse vorrebbe, ma per far sì che la palla clamorosamente non entri in porta ci vuole comunque il lampo di genio di Trapp, che si butta con i piedi anziché con le mani. La palla viene sputata fuori dall’area proprio sui piedi di Davis, che ha l’opportunità incredibile di riscattare la finale persa 14 anni prima. Il tiro sembra perfetto alla destra di Trapp, ma sulla traiettoria c’è ancora Jakic che quasi con i capelli devia il pallone sopra la traversa. Il centrocampista croato era entrato al 90esimo al posto di Sebastian Rode.
È l’equivalente calcistico del momento cinematografico in cui ti passa tutta la tua vita davanti. Quella di Kent, un anno in meno di Borré, arrivato a questa finale dopo essere stato uno dei prodigi delle giovanili del Liverpool, poi sfiorito ai Rangers nonostante da partite come quella di ieri sembra ancora poter dare qualcosa al calcio di alto livello (120 minuti in cui ha superato l’uomo quattro volte su sette, a volte con un’elettricità incontenibile). Prima della finale The Athletic ha chiesto al suo primo allenatore di scrivergli una lettera, lui ha ricordato il momento in cui lo ha incontrato per la prima volta: «Il modo con cui correvi con la palla era lo stesso che hai oggi, anche se allora giocavamo nella Manchester Mini Soccer League e oggi sei su un grande palcoscenico in Spagna». Dentro lettere di parenti e amici, tra gli altri, anche di Barisic, uscito quattro minuti prima dei rigori forse per togliersi il pensiero di tirarlo, e James Tavernier, improbabile capocannoniere di questa Europa League che da piccolo si esercitava con la madre in giardino mentre sognava di tirare le punizioni come David Beckham. Dopo aver vinto entrambi i lanci delle monetine tra i boati del suo pubblico e aver segnato il primo pesantissimo rigore (che forse avrebbe dovuto tirare Barisic), Tavernier a trent’anni compiuti potrebbe aver perso l’ultima occasione per mettere le mani su un trofeo europeo.
A festeggiare con rigori ai limiti della perfezione sono Lenz, Hrustic, Kamada, Kostic e Borré, quest’ultimo con la faccia finalmente trasfigurata da una felicità sempre un po’ disperata e la mano sinistra fasciata come Karim Benzema. Festeggia anche Oliver Glasner, che aveva portato a lavare i suoi pantaloni fortunati con cui era scivolato di pancia sull’erba del Camp Nou dopo la clamorosa vittoria contro il Barcellona. Un uomo che non sa cosa sia la scaramanzia ma anche il primo tecnico austriaco a vincere un trofeo europeo dai tempi di Ernst Happel, che vinse la Coppa dei Campioni con l’Amburgo nel 1983. Provando a riassumere le sue qualità, il capitano Sebastian Rode aveva dichiarato che Glasner «lascia che la squadra sogni». Per entrambi, questa finale era un punto di arrivo. Quando, ancora in campo, il giornalista gli ha ricordato che con quella vittoria avevano guadagnato l’accesso alla Champions League, Rode ha risposto: «Ci penseremo più avanti, ora festeggiamo».